Leadership e Resilienza

Massimo Berlingozzi: pubblicato su Harvard Business Review Italia – Formatori & Formazione  6 marzo 2019

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È difficile affrontare il tema della leadership senza evocare la parola “potere”, cosi come è difficile rimuovere da un immaginario largamente condiviso, l’idea del leader come figura “forte” (con tutto quello che questi due concetti si trascinano dietro). Affermando questo non si vuole certo alludere a qualche virtù intrinseca nel concetto opposto di debolezza, quanto piuttosto tentare di modificare una visione, troppo spesso banalmente stereotipata, di ciò che definiamo “forte”.

Pochi concetti ci sono d’aiuto, nell’intento di modificare in meglio l’idea di forza, quanto quello di resilienza. In fisica e in ingegneria resilienza indica la capacità di un materiale di tornare allo stato iniziale dopo aver subito uno shock. Il termine deriva dal verbo latino “resalio”, che qualcuno mette in relazione con il gesto di risalire sulla barca capovolta dalla forza del mare. C’è una frase di Ernest Hemingway che rappresenta molto bene questo concetto: “La vita ci spezza tutti, ma solo alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati”.

Essere resilienti significa quindi guardare alla forza in modo diverso, attingere a un pensiero più articolato e complesso, che contempla l’esistenza del limite e la possibilità del fallimento. Affrontare le difficoltà con una mentalità positiva, andare avanti nonostante le crisi, attraverso un percorso che permette la costruzione, anzi la ricostruzione, di un nuovo equilibrio di vita. Si tratta di un’abilità di grande valore, che attinge le sue risorse da una “forza intelligente”.

Studi recenti sembrano confermare le ricerche condotte a Berkeley dallo psicologo Dacher Keltner che aveva coniato la definizione di “paradosso del potere”. Keltner aveva notato come nel tempo l’esercizio del potere tende a far perdere alle persone alcune delle doti che hanno consentito loro di ottenerlo. In particolare, aveva riscontrato una limitata capacità di entrare in sintonia con le persone con cui erano in relazione e di riuscire a comprendere cosa loro stessero provando.

Queste intuizioni sono state confermate da Sukhvinder Obhi, un neuroscienziato della McMaster University in Ontario, che ha condotto una serie di esperimenti usando la tecnica della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), attraverso i quali ha potuto appurare che l’esposizione al potere danneggia il funzionamento di alcune strutture cerebrali, i neuroni a specchio, che come è noto sono alla base della nostra capacità empatica.

Oggi sempre meno persone sono disposte ad accettare di essere guidate attraverso metodi autoritari, è cambiata la società, sono cambiati i modelli educativi all’interno delle famiglie. Abbiamo speso molte parole per far comprendere la differenza tra autoritarismo e autorevolezza, e possiamo dire che questo è un dato in larghissima misura compreso e condiviso.

Immaginare una “leadership resiliente” significa dunque lasciarsi guidare da un modello più in sintonia con le aspettative e i desideri delle persone. Abbiamo abbandonato le certezze di un tempo, molti indicatori ci dicono che dovremo affrontare un futuro incerto e complesso, segnato da profondi cambiamenti. I valori e le capacità a cui si ispira la resilienza ci aiutano a guardare tutto questo con maggiore fiducia.

Proviamo quindi a indicare in sintesi alcune delle più importanti qualità che dovrebbero ispirare i leader (e le organizzazioni) resilienti:

  • Riflessività: la persona resiliente manifesta calma, valuta con lucidità la situazione, è capace di pensare anche sotto pressione.
  • Flessibilità/Creatività: la capacità di uscire dagli schemi, di guardare la realtà con occhi diversi e di imparare dagli errori.
  • Fiducia: in sé stessi e negli altri. Non lasciarsi mai sopraffare dagli eventi, affrontare le avversità con motivazione, convinti di poter trovare una soluzione.
  • Empatia: imparare dagli altri, attraverso l’osservazione, l’ascolto e lo scambio emotivo.

L’insieme di queste doti può aiutare i leader ad accettare anche il carattere transitorio del proprio ruolo, evitando i rischi della seduzione del potere. La qualità più importante di un leader dovrebbe essere quella di saper far crescere le persone. Già nel sesto secolo a.C. Lao Tzu affermava che il capo migliore è quello di cui i suoi seguaci possono dire: “abbiamo fatto tutto da soli”.

Il Futuro del Lavoro

Massimo Berlingozzi: pubblicato su Harvard Business Review Italia – Mondo Formazione  14 febbraio 2019

Globalizzazione e innovazione tecnologica sono le parole chiave per comprendere cosa è accaduto, e cosa sempre di più accadrà, nelle imponenti trasformazioni che hanno investito il mondo del lavoro in questi ultimi anni. Sono anche la premessa migliore per interrogarsi su cosa sta avvenendo nelle persone, all’interno delle organizzazioni coinvolte in queste potenti dinamiche. Si affermano nuovi modi di organizzare i processi produttivi, emergono forme atipiche e autonome di lavoro, si osserva una importante trasformazione dei mestieri, delle professioni, ma soprattutto delle competenze utili per far fronte a un insieme di sfide che attendono ancora una piena risposta.

Per molto tempo lavorare ha significato recarsi in un luogo preciso, uno spazio fisico, che rappresentava un ambiente sociale di aggregazione capace nel tempo di generare “senso di appartenenza” e “idea di comunità.” Tutto questo avveniva in un tempo definito, scandito da rituali precisi che separavano il tempo del lavoro da quello delle relazioni sociali – private e di comunità – quello che con l’avvento della modernità verrà definito: il “tempo libero”. Oggi molto poco è rimasto di tutto questo, i luoghi di lavoro perdono sempre più frequentemente pezzi della loro identità. In nome dell’efficienza produttiva si decide di spostare il lavoro, delocalizzarlo, oppure sostituire lo spazio fisico con “luoghi digitali”, spazi virtuali. La perdita del radicamento dissolve il senso di appartenenza, il tempo per il lavoro e quello personale si confondono. Nella dimensione digitale siamo sempre connessi, le relazioni non conoscono limiti e non sono soggette a barriere temporali. La “connessione” ha sostituito il “legame”.

In questo scenario di inarrestabile trasformazione, molto vasto e complesso, carico spesso di ambiguità, uno dei temi dibattuti sin dagli inizi degli anni novanta ha riguardato la cosiddetta flessibilità del lavoro, cioè il luogo dove lavorare e il tempo in cui lavorare.  Il Lavoro agile, o “smart work” che dir si voglia, ha accompagnato in tutte le sue fasi di sviluppo una svolta epocale, l’affermarsi di un nuovo modo di lavorare, senza ombra di dubbio più flessibile e, almeno nelle intenzioni, più equilibrato. Ma cosa implica e cosa comporta lavorare “in remoto”? Cosa significa per le persone? Cosa cambia nella gestione di una organizzazione così strutturata? Quali sono gli impatti per chi ha responsabilità di guida? È infatti lo stile di leadership l’elemento di cultura aziendale esposto ai più profondi cambiamenti.

Il primo passo è la necessità di rivedere la struttura della relazione tra le persone: da una logica gerarchica, basata sul controllo – spesso diretto, immediato, “a vista” – a una logica che fa leva sulla fiducia tra e verso le persone. E non solo: è necessario passare da una osservanza rigida della gerarchia aziendale, al valore delle competenze e all’appartenenza a un network professionale.

Si trasforma il paradigma gestionale: diventa necessario concentrare la propria azione sul raggiungimento degli obiettivi, superando l’antico vincolo delle misure della performance, quali la presenza e il tempo. Per il leader diventa fondamentale la capacità di delegare, concedere spazi di autonomia e un aumento delle responsabilità del collaboratore. Imparare ad accettare che il collaboratore porti a termine il lavoro seguendo una sua strada, con risultati a volte anche più efficaci di quanto avrebbe fatto nella vecchia modalità. Tutto questo rappresenta non solo un cambio di mindset, ma una vera e propria trasformazione del modo di essere leader, soprattutto nell’aver assimilato il valore della diversità, che consente di apprezzare modalità di lavoro diverse dalle proprie.

Una prospettiva nella quale una mente flessibile ed empatica diviene un requisito indispensabile per il successo. Entrare in relazione con chi lavora a qualche migliaio di chilometri dalla nostra scrivania e che potremo incontrare solo saltuariamente, richiede una elevata consapevolezza che può scaturire solo da precise domande. Bisogna essere disponibili e capaci di esplorare contesti sociali, processi cognitivi e stili relazionali, culture organizzative e personali diverse dalle nostre. Comprendere i valori, le motivazioni e le aspettative nei confronti del futuro.

E tutto questo ormai non è più una novità. L’evoluzione è inarrestabile e l’esigenza di mettere a terra azioni concrete che ci portino a migliorare la nostra efficacia gestionale e, di conseguenza, il successo dell’organizzazione e delle persone, diventa un imperativo che non è più possibile rimandare. Saremo capaci di conciliare le richieste di efficienza che arriveranno dalle organizzazioni impegnate nei processi di innovazione, con i bisogni e le motivazioni delle persone coinvolte?

Il mondo della formazione si trova di fronte a una grande sfida, da sempre ha svolto un ruolo importante e strategico nell’organizzare e facilitare i processi di cambiamento rendendo comprensibili e accettabili i grandi mutamenti. E quando il cambiamento continuo diviene l’unica costante, la “learning organization”, l’organizzazione che si trasforma in un “sistema che apprende”, capace di integrare idee, saperi ed esperienze all’interno di un patrimonio comune, rappresenta l’unica risposta capace di coniugare l’efficienza con lo sviluppo e la crescita personale degli individui. È opinione diffusa che nei prossimi 10/20 anni assisteremo a cambiamenti di portata storica nel mondo del lavoro, dobbiamo impegnarci fin d’ora per costruire un futuro capace di governare questi processi con efficienza, lungimiranza e senso di responsabilità.

 

 

La Competenza Emotivo Comportamentale come fattore umano

Massimo Berlingozzi  – Diego Ingrassia  
Pubblicato su: “Il Cuore nella Mente”  – Diego Ingrassia novembre 2018
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La mia vita è diventata una distrazione dal mio smartphone

David Meredith e Robert James

 

IL MONDO IN CUI VIVIAMO

“Buon compleanno, caro Marc”, il prossimo 5 dicembre compirai 29 anni. Cominciava così, un articolo comparso nel dicembre del 2008 sulla rivista francese “Le Tigre”. Chi legge quell’articolo, all’interno trova anche un paio di foto di Marc, e poi molte informazioni su di lui, quasi l’intera biografia: dove vive, che lavoro fa, i luoghi dove viaggia più spesso (date comprese), le sue passioni, gli amici, il battesimo di una nipotina. Marc è celibe ed eterosessuale, ci sono anche i nomi di due ex fidanzate (con tanto di descrizione fisica). Lui però non sa nulla di tutto questo, “Le Tigre” non ha una grandissima diffusione, ma un amico, a cui capita di leggere l’articolo, lo chiama per informarlo. Marc è stupito, non capisce, telefona alla sede della rivista, si arrabbia, ma dalla redazione del giornale gli rispondono che tutto quello che hanno mandato in stampa era di pubblico dominio. Chiunque poteva avere quelle informazioni, perché Marc stesso le aveva pubblicate in Rete.

Tutto questo accadeva nel 2008. Sono passati solo dieci anni ma in questo tempo il “ciclone” di internet ha viaggiato a grandissima velocità. La geniale provocazione di “Le Tigre” mirava a risvegliare le coscienze rispetto a una consapevolezza che non c’era, e forse ancora non c’è: cosa sta cambiando, nella nostra visione del mondo e nei nostri comportamenti, attraverso l’uso massiccio di questi strumenti? Non vogliamo lanciarci in una disquisizione di carattere sociologico, ci limiteremo ad analizzare alcuni effetti, documentati, direttamente collegati con lo sviluppo delle competenze inerenti al nostro metodo.

Il primo IPhone è uscito nel 2007, oggi uno smartphone è nelle mani di chiunque, per la precisione il 65% della popolazione mondiale. Il 74% degli abitanti del pianeta ha accesso a internet, due miliardi e mezzo di persone usano Facebook, su Google vengono fatte più dell’80% delle ricerche on line. Ogni minuto in Rete si effettuano: 900 mila login su Facebook, 3,5 milioni di ricerche su Google, vengono visti 4,1 milioni di video su You Tube, e postate 1,8 milioni di foto su Snapchat. Qualcuno ha calcolato che nel solo 2012 sono stati prodotti più dati che nei cinquemila anni precedenti.

Una massa di dati (secondo molti la vera fonte di ricchezza del futuro), dalle dimensioni stratosferiche, è a disposizione di poche, grandissime compagnie; GAFA è un acronimo che racchiude le quattro più grandi (Google, Amazon, Facebook, Apple). Da questo oceano di dati, potenti algoritmi estraggono pacchetti di informazioni declinate su precisi obiettivi. Tecniche di profilazione sempre più evolute, rispetto alle quali l’indagine su Marc è pura preistoria, arrivano a conoscerci meglio di un nostro vecchio amico, e questo accade perché anche le emozioni fanno parte di questa partita.

Un’altra data importante in questo scenario è il 4 dicembre del 2009, quando, come ci ricorda Michele Ainis in un suo recente libro, avviene una significativa rivoluzione: Google informa i suoi utenti che da quel giorno le ricerche diventeranno personalizzate, ovvero: i risultati cambiano in funzione delle ricerche precedenti. Prendiamo nota anche di questo secondo aspetto importante: le risposte che il web ci fornisce, ricerca dopo ricerca, cominciano a coincidere sempre di più con le nostre aspettative: uno “specchio di Narciso” che continua a rinviarci la nostra immagine. Situazione che di certo non aiuta lo sviluppo delle competenze su cui stiamo lavorando, rinforzando quel pericoloso errore, “l’avverarsi della profezia”, che abbiamo trattato nel settimo capitolo.

È una storia ancora breve, ma alcuni effetti cominciano a essere studiati, per uno di questi si è creato un apposito neologismo: “phubbing”. Nato dalla fusione di snubbing (snobbare) e phone, ci rinvia a un significato fin troppo chiaro, perché aver generato o subìto questo comportamento, appartiene probabilmente all’esperienza di ognuno di noi: essere in compagnia di qualcuno e continuare a indugiare sul proprio smartphone distraendosi dalla relazione reale. Fenomeno che ben rappresenta una deriva decisamente pericolosa per la qualità delle relazioni. È evidente infatti che la pratica di questo comportamento pone la persona che lo attua in una posizione one-up rispetto al suo interlocutore. È probabile che questo avvenga molto spesso nella completa inconsapevolezza delle persone coinvolte, ma non nell’indifferenza della loro parte emotiva. La dinamica one-up/one-down è infatti un meccanismo potente, capace di attivare il nostro cervello emotivo, all’origine di molte patologie relazionali che possono sfociare in veri e propri conflitti.

Analoghi comportamenti sono individuabili anche nelle relazioni affettive, quando, all’interno della coppia, si manifesta il “partner phubbing”, fenomeno destinato a creare trascuratezza nella relazione, disagio e sentimento di abbandono. In uno studio pubblicato su Computers in Human Behavior dal titolo emblematico “La mia vita è diventata una distrazione dal mio smartphone” gli autori David Meredith e Robert James, parlano proprio di questo, di uno strumento capace di generare un desiderio superiore a quello per il partner. Può sembrare paradossale provare gelosia per un oggetto, uno smartphone, ma quello che emerge dalla ricerca è esattamente questo: la presenza dell’oggetto, sempre visibile, che si frappone tra i partner nella relazione.

Le tecnologie digitali hanno facilitato, velocizzato, potenziato e reso sempre disponibile lo scambio delle informazioni, aprendo spazi un tempo inimmaginabili nei rapporti tra le persone. Insieme a questo però si sono modificati i linguaggi e le forme della relazione. L’idea che gli strumenti di comunicazione siano, nella loro essenza, neutri, per cui dipende da noi l’uso buono o cattivo che ne facciamo, come ci ha insegnato McLuhan è un pensiero ingenuo. La natura profonda di un mezzo di comunicazione produce un inevitabile cambiamento nella rappresentazione della realtà.

LA COMPETENZA EMOTIVA

Lo sviluppo della competenza emotiva, di cui stiamo parlando dall’inizio di questo libro, non può non tenere conto dello scenario che abbiamo appena descritto. E questo vale, non solo per chi tra le pagine di questo libro ha trovato lo stimolo per approfondire competenze specialistiche inerenti alla propria professione, ma anche per tutti coloro che nello sviluppo della competenza emotivo comportamentale vedono un’opportunità per migliorare le proprie relazioni personali, con gli amici, in famiglia, con i figli, attraverso una migliore consapevolezza delle proprie e altrui emozioni.

Per millenni gli esseri umani non hanno pensato alle proprie emozioni, non si sono posti nessuna domanda su come agire di fronte a un’emozione, poiché l’uomo “veniva agito dalle emozioni”. Abbiamo più volte spiegato come il meccanismo automatico delle emozioni abbia concorso alla sopravvivenza della nostra specie nel corso dell’evoluzione e, nonostante le minacce fisiche nella vita civile moderna siano decisamente diminuite, continua comunque ad assolvere a questa funzione in specifiche situazioni. Chiaramente le condizioni sono mutate, e alcuni di questi profondi cambiamenti riguardano la vita di relazione. Si pensi per esempio alla funzione adattativa del disgusto: un nostro antenato preistorico correva spesso il rischio di entrare in contatto con sostanze nocive nell’attività di ricerca del cibo, la funzione del disgusto era vitale. Noi, quando facciamo la spesa al supermercato, siamo completamente tutelati. Ma se pensiamo alle relazioni lo scenario cambia, i nostri antenati vivevano in comunità stabili composte da non più di una o due centinaia di persone, noi superiamo di gran lunga quel numero dentro qualsiasi metropolitana ogni mattina, creando le premesse per far scattare la funzione del disgusto, causato da un’eccessiva vicinanza con un numero troppo elevato di estranei.

La maggiore esposizione sul fronte delle relazioni non ha tuttavia alterato nulla nella fisiologia delle emozioni, nella dimensione “fisica” che coinvolge il nostro corpo. Su questo punto è importante fare una riflessione finale. Autori come Francisco Varela e Antonio Damasio, sono stati precursori del concetto di “embodied mind”, ossia di una “mente incarnata”. Secondo questi autori non può esistere un’attività cognitiva senza un corpo e in questo processo, come abbiamo visto in altre parti del libro, le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Prendiamo per un’ultima volta in esame i nostri sei canali di osservazione:

  • le espressioni facciali
  • il linguaggio del corpo
  • la voce
  • il contenuto verbale,
  • lo stile verbale
  • il sistema nervoso autonomo

se escludiamo alcuni elementi di osservazione legati al contenuto e allo stile verbale, ci troviamo di fronte a una netta prevalenza di segnali di comunicazione analogica, la cui origine è quindi intimamente legata alla fisicità del corpo. Le emozioni sono al centro dell’intreccio psicosomatico, non può esistere un’emozione senza un corpo.

Per questa ragione, la capacità di entrare in connessione emotiva, la “dimensione del sentire”, l’ascolto empatico, giocano un ruolo di fondamentale importanza per rendere “percorribile”, al di là della pura conoscenza, la possibilità di agire queste competenze. E questa è la ragione per cui preoccupano alcuni degli effetti determinati dalla “rivoluzione digitale” precedentemente descritti. La soluzione non è certo quella di trasformarsi in luddisti del terzo millennio, nessuno può arrestare processi di queste dimensioni e nessuno vuole disconoscere i meriti e i progressi connaturati a questa grande trasformazione. Si tratta solo di diventare pienamente consapevoli di cosa questi cambiamenti producono dentro di noi, e nello stesso tempo comprendere a fondo il valore unico dell’esperienza umana.

C’è qualcosa che ancora le macchine non possono fare, questo dovrebbe renderci orgogliosi della nostra natura umana. Quando l’intelligenza è pura potenza di calcolo non c’è partita tra l’intelligenza della macchina e quella umana, è noto che l’intelligenza artificiale è riuscita a battere i migliori giocatori di scacchi e più recentemente il campione mondiale nell’ancor più complicato gioco del Go. Ma la macchina non è consapevole di quello che fa, non ha coscienza, non ha emozioni. C’è qualcosa nell’intelligenza umana che non può essere ridotto a un algoritmo: generalizzare e astrarre regole apprese, contestualizzare gli elementi di senso di una decisione; comprendere le conseguenze di una determinata scelta; essere capaci di fornire risposte anche di fronte a situazioni ambigue, tollerare l’incertezza; agire comunque, se necessario, anche in assenza di una procedura o di un programma. Tutte queste sono caratteristiche peculiari dell’intelligenza umana, anche perché le emozioni giocano un ruolo determinante in questi processi.

 “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce”, è un celebre aforisma di Blaise Pascal che riassume mirabilmente il ruolo e l’importanza della competenza emotiva con tre secoli di anticipo rispetto alle conoscenze di cui abbiamo parlato nei precedenti capitoli. Alla fine di questo percorso, la cosa più importante da ricordare, è proprio questa: nella sintesi tra cuore e ragione, che trova sempre più conferme da parte delle più recenti acquisizioni delle moderne neuroscienze, risiede il valore più profondo dell’intelligenza umana.

Chi poi è preoccupato per alcune delle derive descritte, ha probabilmente un unico modo per potersi difendere: creare un cocktail diverso per la gestione del proprio tempo, tornando ad assegnare un’adeguata proporzione alle relazioni mediate dalla corporeità e alle parole accompagnate dallo sguardo negli occhi dell’altro.

Le macchine ci ruberanno il lavoro?

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Leadership & Management Magazine  –  novembre 2018
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“Il computer non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide, anzi è una macchina stupida che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti”. Era il 1986 quando Umberto Eco scriveva queste parole, da quella data molta acqua è passata sotto i ponti. Chi poteva, allora, anche solo immaginare gli sviluppi che avrebbe avuto la rivoluzione digitale? Oggi il computer lo teniamo in tasca, più spesso in mano. Il 65% degli abitanti del mondo possiede uno smartphone, uno strumento con una potenza di calcolo da far impallidire i computer degli anni 80. La velocità e la quantità di dati scambiati sono impressionanti e costantemente in crescita (è stato calcolato che nel solo 2012 sono stati prodotti più dati che nei cinquemila anni precedenti). I sistemi di machine learning e deep learning hanno portato Alpha Go, l’Intelligenza Artificiale di Google DeepMind, a battere i migliori giocatori al mondo di Go, l’antico gioco cinese considerato più complesso degli scacchi. La domanda dunque è quanto mai attuale: riuscirà l’Intelligenza Artificiale (AI) a replicare e poi, forse, anche a superare l’intelligenza umana? I pareri tra gli esperti sono molto discordanti: c’è chi dice mai; chi come Rodney Brooks, direttore fino al 2007 del laboratorio di informatica e intelligenza artificiale del MIT di Boston, pensa che ci vorranno centinaia d’anni; e chi invece, insieme a Demis Hassabis del Deep Mind di Google, è convinto che questo traguardo potrà essere raggiunto in qualche decina d’anni. I risultati, in ogni caso straordinari, raggiunti dall’intelligenza artificiale non sono infatti classificabili come: “AGI” (Artificial General Intelligence), un’AI capace di replicare completamente l’intelligenza umana, appartengono invece all’AI definita debole o limitata, che si pone come obiettivo la realizzazione di un sistema capace di agire con successo in una specifica attività complessa come, ad esempio, la traduzione di testi o il riconoscimento di immagini.

Un futuro senza lavoro?

I progressi dell’AI sono comunque tali da aver messo in allarme molte persone riguardo al futuro. Un certo scalpore ha suscitato, ad esempio, l’appello contro i pericoli di uno sviluppo incontrollato dell’AI, che ha avuto come protagonista un personaggio del calibro di  Stephen Hawking poco prima della sua morte. Ma, senza spingerci troppo oltre, è il tema del lavoro a generare serie preoccupazioni. Difficile, infatti, parlare di “nuove professioni” senza evocare una paura, sempre più diffusa,  verso un futuro ostile e incerto in cui macchine sempre più intelligenti ruberanno i posti di lavoro agli esseri umani. “Il futuro senza lavoro” è il titolo di un libro, pubblicato in Italia nel 2017, che si occupa di questo. L’autore, Martin Ford, un imprenditore della Silicon Valley che opera da 25 anni nel campo dell’AI con la fama di futurologo, pone una seria domanda: questa volta è diverso? Dati alla mano, dimostra che, a differenza delle rivoluzioni industriali passate, durante le quali i posti di lavoro cancellati venivano sostituiti da nuove occupazioni, oggi non è più così. Ford sostiene che è sufficiente leggere i numeri, e quelli disponibili evidenziano come i posti creati sono inferiori rispetto a quelli usurpati dalle macchine. Aggiunge anche che, sempre all’impatto della tecnologia si devono fenomeni come: il ristagno dei salari, la disoccupazione a lungo termine, la sottooccupazione dei neolaureati, il forte aumento della diseguaglianza.

Ma anche nel caso del lavoro le previsioni degli esperti sono molto dissimili. Citiamo, a titolo di esempio, due diverse ricerche: il primo è lo studio di due accademici di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, i quali hanno calcolato che nei prossimi due decenni, il 47% dei lavori negli Stati Uniti potrebbe essere spazzato via da robot e macchine intelligenti (in uno dei suoi ultimi discorsi il presidente degli Stati Uniti Barack Obama affermò che: il giorno in cui i sistemi di guida autonoma saranno operativi, quattro milioni di camionisti americani perderanno il loro lavoro). Il secondo esempio riguarda una recente indagine dell’Ocse, curata da Melanie Arntz, Terry Gregory e Ulrich Zierahn, che valuta invece in appena il 9% dei posti di lavoro a rischio nei paesi più industrializzati. Quello che è certo è che siamo di fronte a un cambiamento epocale, prova ne è che, contrariamente a quanto molti pensano, l’impatto delle macchine intelligenti non riguarda soltanto il settore della produzione, ma si sta espandendo anche al modo dei servizi, dove il numero di robot e software intelligenti che si interfacciano con gli utenti, sono già il doppio di quelli del settore industriale. Una rivoluzione che sta coinvolgendo comparti del mondo del lavoro, inimmaginabili fino a poco tempo fa, legati ad attività di relazione: avvocati, giornalisti, militari, infermieri, medici, babysitter, camerieri, ecc. Nessuna professione insomma sembra essere più totalmente al riparo. La paura che le macchine prendano il sopravvento sul lavoro dell’uomo è una storia antica, che ci riporta con la memoria all’origine della rivoluzione industriale e ai luddisti che distruggevano i telai meccanici. Ma la paura odierna non è più verso la macchina come possibile sostituto della “forza lavoro”, oggi la macchina sfida l’intelligenza dell’uomo, il suo aspetto più nobile. È per questa ragione che dobbiamo essere capaci di definire e descrivere con precisione, cosa distingue l’intelligenza umana e in quali ambiti non è sostituibile.

 

Siamo consapevoli della differenza dell’intelligenza umana?

Può sembrare semplice rispondere alla domanda su quali siano gli elementi distintivi e quindi il vero, e diverso, valore dell’intelligenza umana, ma quando si comincia a indagare si scopre che la vicenda, alla luce dei risultati nel campo dell’AI, è decisamente molto complessa.  Il filosofo americano John Searle, noto per i suoi studi sulla “filosofia della mente”, sostiene che una macchina può essere in grado di “simulare” un comportamento intelligente, ma non per questo la si può definire realmente intelligente. Pensare e simulare sono due attività completamente diverse. La macchina si limita ad applicare istruzioni o regole, per quanto complesse, senza comprendere nulla di quanto sta facendo. Dispone solo di una competenza “sintattica” nel combinare simboli, non possiede invece una competenza “semantica”, indispensabile per attribuire un significato ai simboli su cui sta operando. Pensare, secondo Searle, in quanto esperienza cosciente, vissuta dal soggetto, è quindi una attività irriducibile a qualsiasi altra forma che non sia legata all’esperienza cosciente dell’essere umano. Al contrario di John Searle ci sono ricercatori nel campo del deep learning che, come abbiamo visto all’inizio, sono convinti che la creazione di una macchina cosciente, costituita di neuroni artificiali, sia un traguardo raggiungibile. Da questo punto di vista, chi è scettico riguardo all’intelligenza delle macchine, avrà provato più di un brivido di fronte al computer AIVA, presentato a Vancouver da Pierre Barreau, che compone musica autonomamente (dopo un periodo di apprendimento) ispirandosi a Beethoven, o di fronte a macchine simili nel campo della pittura, come nel caso del progetto “The Next Rembrandt”, capaci di realizzazioni straordinarie in entrambi i casi.  Risultati di questo livello, nonostante alla macchina venga “ordinato di creare”, sembrano minacciare un dominio dell’intelligenza, per ora ritenuto esclusivamente umano, come la creatività. Resta, come ultimo baluardo in difesa dell’intelligenza umana, la considerazione che la macchina non è consapevole di quello che sta facendo. Lo spiega bene un pioniere di questa materia come Judea Pearl, che valuta questi risultati come il prodotto di macchine superpotenti, che tuttavia si limitano a “trovare regolarità nascoste in un ampio set di dati”. Affermazione che trova il consenso di altri esperti nel campo dell’AI, convinti che si sia raggiunto un limite difficilmente superabile. Nonostante la quantità di dati, sempre crescente, che queste macchine riescono a elaborare, i software, che operano sulla base di calcoli statistici, non riescono ancora a compiere processi tipici dell’intelligenza umana come: l’abilità di generalizzare e ragionare astrattamente, per arrivare a problemi riguardanti i significati e il buon senso. Ricordo personalmente una lezione di molti anni fa di Massimo Piattelli Palmarini, che spiegava come per un bambino sia facile comprendere che se due persone sollevano singolarmente 30 chili, probabilmente insieme ne solleveranno 60. Ma se le stesse persone saltano individualmente un metro insieme non saltano due metri. Bene, concludeva, provate a spiegare tutto questo a una macchina e capirete molte cose sui processi mentali e sull’intelligenza. Quello che accade, e che sembra difficilmente superabile, è che piccole variazioni di contesto, facilmente gestibili da qualsiasi persona (per esempio all’interno di un dialogo dai confini non precedentemente definiti), può mandare in tilt le migliori AI oggi disponibili.

Scegliere, per restare al timone del nostro futuro

Il quadro che abbiamo appena delineato lascia intravedere un futuro in cui possiamo dormire sonni tranquilli: nessuna super-intelligenza si profila dietro l’angolo. Se guardiamo al cervello umano con i suoi 100 miliardi di neuroni e trilioni di sinapsi, ci rendiamo conto che nulla del genere è stato mai nemmeno lontanamente costruito (tralasciando il fatto che i tecnici affermano che una macchina simile dovrebbe avere un livello di efficienza energetica di un miliardo di volte superiore ai migliori computer attuali: un traguardo tecnico irrealizzabile con le attuali tecnologie). La sfida con l’intelligenza umana appare dunque rimandata di molti anni o (secondo alcuni) per sempre. Resta del tutto presente invece il problema dell’impatto che l’Intelligenza Artificiale Limitata (sistemi capaci di altissima efficienza nella risoluzione di specifici problemi), può creare in termini di perdita di posti di lavoro, come sostenuto da Martin Ford. Di fronte a questa reale minaccia, il vero problema di cui dovremmo occuparci, è il nostro atteggiamento nei confronti della tecnologia, per chiederci se siamo ancora capaci di scegliere e di guidare gli eventi possibili. Il rischio di una comoda e passiva dipendenza dalla tecnologia, che da un lato facilita le nostre vite ma dall’altro ci porta ad abbandonare abilità e competenze, apparentemente obsolete, è molto forte. A cosa serve essere capaci di orientarsi se possediamo un GPS capace di portarci a pochi metri dalla nostra destinazione? A cosa serve conoscere le regole dell’ortografia e della sintassi se hai a tua disposizione un correttore automatico? È ancora importante faticare per apprendere le lingue se, di qui a poco, potremo avere tra le mani un piccolo e potentissimo traduttore universale? Serve a qualcosa sviluppare una specifica competenza nella ricerca delle informazioni e nella comparazione delle fonti, se mi basta cliccare su Google per avere “tutta informazione del mondo” a disposizione? (peccato che quasi nessuno si spinga oltre la prima pagina e si chieda quali siano i criteri che hanno generato quella prima pagina). Sono tutte meravigliose opportunità, come negarlo? Ma cosa accade alla nostra testa? Il tutto si aggrava, poi, quando queste opportunità ci vengono fornite senza averle richieste. Innocui suggerimenti, o valanghe di informazioni che distraggono continuamente le nostre menti? (potenti sistemi di AI sono attivi in questo senso, sostenuti da grandi investimenti).

Gli etologi ci hanno insegnato che gli animali che trovano il cibo troppo facilmente, sviluppano una minore intelligenza. Per milioni di anni ci siamo evoluti risolvendo problemi, ora rischiamo di delegare tutto a qualche clic. L’idea che gli strumenti tecnologici siano, nella loro essenza, neutri, per cui dipende da noi l’uso buono o cattivo che ne facciamo, come ci ha insegnato McLuhan, è un pensiero ingenuo. Le modificazioni che producono nella nostra rappresentazione della realtà sono determinanti, perché incidono sul nostro modo di reagire e di pensare. Di questo si occupa in modo ampio Manfred Spitzer, che dirige il Centro per le Neuroscienze e L’Apprendimento dell’Università di Ulm, nel libro “Demenza digitale”. Il sottotitolo, “come la nuova tecnologia ci rende stupidi”, è abbastanza esplicito nel descrivere uno scenario in cui viene minacciata la nostra capacità critica, la capacità di riflettere e di concentrarci; bombardati da stimoli capaci di attivare il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore legato ai meccanismi della ricompensa e del piacere, che genera dipendenza. Non si tratta di inutile allarmismo, i dati sconfortanti relativi al nostro paese, riguardanti un fenomeno come l’analfabetismo funzionale, al 28%, dovrebbero farci riflettere: quasi un italiano su tre, è capace di leggere e scrivere, ma non riesce a comprendere il significato di un testo minimamente complesso, come un articolo di giornale. Questa triste classifica, che ci vede all’ultimo posto in Europa, è il segnale di una grave perdita di competenza che avviene in una fase storica in cui sarebbe invece fondamentale poter attingere alle nostre migliori risorse cognitive, per affrontare le sfide del futuro pensando lucidamente, ma anche con una punta di orgoglio, al valore dell’intelligenza umana.

C’è un passaggio profetico, che rievoca i romanzi distopici di Orwell e Huxley, nella premessa di un libro del 1985 di Neil Postman, “Divertirsi da morire”, quando internet era un privilegio per pochi specialisti:

 “Aspettavamo tutti il 1984. Venne, ma la profezia non si avverò… fummo risparmiati dagli incubi di Orwell.  Avevamo dimenticato un’altra visione meno infernale e nota di quella di Orwell ma altrettanto raggelante. Quella contenuta nel: “Mondo nuovo” di Aldous Huxley. Orwell aveva immaginato il Grande Fratello, nella visione di Huxley non sarà un supremo dittatore a toglierci l’autonomia e la cultura. La gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare. Orwell temeva che i libri sarebbero stati banditi; Huxley, non che i libri fossero vietati, ma che non ci fosse più nessun desiderio di leggerli. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privati delle informazioni; Huxley, quelli che ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schiavi; Huxley, che sarebbe stata una cultura cafonesca, ricca solo di sensazioni e bambinate. Libertari e razionalisti – sempre pronti ad opporsi al tiranno – non tennero conto che gli uomini hanno un appetito pressoché insaziabile di distrazioni. In “1984” la gente è tenuta sotto controllo con le punizioni; nel “Mondo nuovo”, con i piaceri… La cosa che affliggeva la gente del “Mondo nuovo” non era ridere anziché pensare, ma non sapere per cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare”

C’è un ultimo insegnamento che possiamo trarre dalle ricerche sull’Intelligenza Artificiale. Chi lavora in questo campo definisce pragmaticamente l’intelligenza come la capacità di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi, abbiamo visto che questo risultato è stato brillantemente raggiunto dalle macchine. Allora forse è arrivato il momento di chiedersi, in sintonia con la ricerca del valore più profondo dell’esperienza umana, se sia più importante l’intelligenza o la saggezza. Lasciamo questa riflessione alle parole, anche queste straordinariamente profetiche, scritte da Thomas Eliot nel 1934:

“Dov’è la saggezza che abbiamo perduto nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione?”.

 

Bibliografia:
Ford, M.    (2017)      Il Futuro senza lavoro    Il Saggiatore  Milano
Tegmark, M.  (2018)    Vita 3.0  Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale    Raffaello Cortina  Milano
McLuhan, M.   (1997).     Gli strumenti del comunicare     Il Saggiatore  Milano
Manfred, S.   (2013).    Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi.     Corbaccio  Milano
Postman, N.    (2002).      Divertirsi da morire: il discorso pubblico nell’era dello spettacolo.     Marsilio Venezia
Eliot, T. S., Bigongiari, P., Sanesi, R., & Rondoni, D.    (2000).     Cori da La rocca.    Biblioteca universale Rizzoli

Negoziare: “words before blows”

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Harvard Business Review Italia  –  novembre  2018
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“Words before blows” è una battuta tratta dal “Giulio Cesare” di Shakespeare. “Le parole prima dei colpi”. La negoziazione, nella sua essenza, è questo: uno strumento, antico quanto la civiltà umana, creato per prevenire, o far cessare, la guerra attraverso le parole. È chiaro che il  più delle volte, per fortuna, la parola “guerra” va intesa in senso lato, come conflitto, disputa, contesa. La negoziazione è anche un’arte molto complessa. La parola arte non è scelta a caso per definire un’attività umana sulla quale sono stati scritti centinaia di libri, che hanno cercato ispirazione e risposte attraverso discipline anche molto diverse tra loro: psicologia, antropologia, sociologia, economia, scienze della politica e filosofia. Senza dimenticare che, caso unico nell’ambito delle relazioni umane, gli studi sulla negoziazione hanno potuto beneficiare di una trasposizione formale nel linguaggio matematico della “Teoria dei giochi” (Von Neumann e Morgenstern 1944).

Ma l’arte della negoziazione soffre di un male antico, che ha le sue radici proprio nella guerra. C’è una famosa scena in “Gioventù bruciata”, il film del 1955 che ha consacrato il mito di James Dean, nella quale due giovani si sfidano nel “chicken game”. Una gara tra due auto lanciate a forte velocità, per vedere chi avrà il coraggio di gettarsi fuori dall’abitacolo per ultimo, prima che l’auto precipiti nello strapiombo. L’esito della pericolosa sfida è stabilire in modo inequivocabile, chi vince (colui che si lancia dopo) e chi perde: “il pollo” (colui che si lancia prima). Il significato metaforico del gioco è fin troppo chiaro: alzare il livello della sfida restringe le possibilità del confronto, fino a indirizzarle in un vicolo cieco nel quale alla fine non si potrà che stabilire chi ha vinto e chi ha perso. La sfida ci rivela anche un altro aspetto: quello dell’“etica della convinzione” che Max Weber contrapponeva all’“etica della responsabilità”. Un’etica quindi mai disposta a scendere a mediazioni e compromessi pur di mantenere integri e inalterati i suoi principi (anche a fronte di risultati catastrofici).

La presenza di un conflitto, di una divergenza, è il primo requisito necessario per poter definire una situazione come negoziale: questo punto di partenza è sempre molto chiaro alle parti in gioco. La seconda condizione essenziale è il rapporto di interdipendenza: il legame tra le parti è tale per cui l’obiettivo di ognuna può essere raggiunto solo attraverso l’altra. Nessuna delle parti coinvolte nell’interazione dispone di tutto il potere, l’azione di ognuna delle parti in gioco influenza e dipende dall’azione dell’altra. Questa seconda condizione non è mai altrettanto chiara, e spesso causa di reticenze, resistenze e scarsa consapevolezza. Nella dimensione negoziale siamo dunque chiamati a dover “influenzare” e “dipendere” nello stesso momento. Diventare pienamente consapevoli di cosa significa agire all’interno del “vincolo d’interdipendenza” è l’elemento di maggiore complessità e difficoltà della dimensione negoziale. Per millenni gli esseri umani hanno risolto i loro confitti (e continuano a farlo) attraverso la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di sottomettersi (dipendere) solo se sconfitti. Per la nostra mente, quindi, è estremamente difficile fare coesistere queste due forme di relazione all’interno della medesima situazione: affermare/concedere; convincere/accettare; influenzare/dipendere.

La consapevolezza di questo limite della natura umana era ben chiara a un geniale pedagogista, Loris Malaguzzi, creatore a partire dagli anni 60 di un modello di scuole per l’infanzia divenute molto note anche all’estero sotto il nome di “Reggio Emilia Approach”. Per affrontare questa difficoltà aveva ideato un gioco molto efficace: stendeva sul pavimento un grande foglio che conteneva la sagoma di un animale e chiedeva ai bambini di ricalcare il bordo di quella sagoma con una matita colorata a loro disposizione. La matita di ognuno di loro era però legata alle matite di tutti gli altri mediante una fitta ragnatela di sottili cordicelle. Ogni singolo bambino si accorgeva a questo punto che, in alcune fasi poteva avanzare e in che altri momenti invece era necessario fermarsi per far procedere qualcun altro, fino a quando, diminuita la tensione della corda, poteva nuovamente spingere in avanti la propria matita. Non era necessaria dunque nessuna elaborazione cognitiva, i bambini sperimentavano direttamente sul loro corpo, fisicamente, questo strano ossimoro: per poter avanzare devi fermarti.

Ritornando al linguaggio della teoria dei giochi, sappiamo quindi che possiamo contrapporre al modello “io vinco tu perdi” (giochi a somma zero), la possibilità di far evolvere la relazione negoziale fino alla possibilità di poter “vincere insieme” (giochi a somma diversa da zero), ma lasciamo alle parole di Paul Watzlawick il compito di mostrarci questa semplice verità, così difficile da accettare:

Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero? Che si può vincere insieme non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non esserne battuti? E che (cosa del tutto inconcepibile per lo scaltro giocatore a somma zero) si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, la vita?   

La Gestione del Cambiamento

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Leadership & Management Magazine  –  ottobre 2018
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Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla
                                                                                                                                                                                                Lao Tzu

Molti anni fa Konrad Lorenz, il famoso etologo viennese premio Nobel per la medicina nel 1973, raccontò una storia molto interessante durante una sua conferenza. I protagonisti di questa storia sono due cani, il primo a spasso con il suo padrone, il secondo all’interno del giardino della villa dei suoi proprietari. L’incontro tra i due cani avveniva ogni giorno, perché il percorso del cane a passeggio col padrone coincideva per un certo tratto con il recinto della villa. All’approssimarsi del contatto i due cani immancabilmente si sfidavano mostrando una fortissima aggressività e questo comportamento si protraeva fino al termine della recinzione, dopodiché ritornavano pacificamente alle loro diverse occupazioni. Fino a quando un giorno, nel bel mezzo della loro disputa, trovano il cancello aperto. E cosa fanno i due cani che finalmente potrebbero trasformare in azione l’aggressività così a lungo manifestata? Tornano indietro, fino a ritrovare la rete che li separa, e riprendono a fare quello che hanno sempre fatto. La morale di questa storia, solo apparentemente paradossale, è molto chiara, e la riflessione che ne consegue davvero ricca di significato per le analogie con il comportamento degli individui e delle organizzazioni.

 

Consapevoli delle difficoltà:  La resistenza al cambiamento

La resistenza al cambiamento è un fenomeno molto comune ed, entro certi limiti, del tutto normale, è importante tuttavia comprenderne pienamente il significato. La prima risposta ci arriva dalla biologia: i sistemi viventi hanno bisogno di creare una loro organizzazione interna indipendente dalle perturbazioni ambientali. Questo meccanismo, che prende il nome di omeostasi, ci permette di dialogare con l’ambiente mantenendo stabile l’equilibrio interno. Ma cosa accade quando l’equilibrio interno si rivela non più funzionale a richieste di cambiamento più forti, o del tutto inaspettate, che arrivano dall’ambiente? È proprio in questi casi che la resistenza al cambiamento si manifesta attraverso comportamenti inefficaci e soluzioni paradossali. Il principale obiettivo di questo irrigidimento è il tentativo di mantenere inalterate le strategie di risposta consolidate, anche se oramai apertamente disfunzionali.

Per quale ragione accade tutto questo? Le ragioni sono molteplici: dall’obiettivo di risparmiare energia, alla ricerca della soluzione apparentemente più semplice, per arrivare al rifiuto di modificare schemi, modelli e organizzazioni intimamente legati all’identità del soggetto in questione. Il motivo per cui ci siamo espressi finora con termini volutamente neutri è perché queste considerazioni sono applicabili indifferentemente a esseri umani, gruppi, organizzazioni, sistemi complessi in genere. Il campionario di esempi sarebbe vastissimo, ma è necessario compiere un altro passo per cercare di essere più precisi.

 

Errori e comportamenti stereotipati:  “Maggior dose dello stesso rimedio”

Potremmo sinteticamente riassumere il fenomeno della resistenza al cambiamento, come il tentativo di applicare la medesima soluzione nonostante le circostanze esterne siano drasticamente mutate.  Ma in verità si cerca quasi sempre di fare qualcosa in più, e l’espressione “in più”, in questo caso, è quanto mai adeguata. Quando la gestione del cambiamento diventa critica infatti, non assistiamo solo a una sostanziale incapacità di “mutare schema” nella ricerca di possibili alternative, la resistenza si manifesta anche attraverso il tentativo, spesso del tutto sterile, di affrontare il problema mediante un aumento della forza (incremento quantitativo) che viene applicata alle vecchie soluzioni. Chi studia il cambiamento sintetizza spesso questo concetto con la frase “maggior dose dello stesso rimedio”. Sono molti gli esempi che possiamo fare: in campo medico sono noti i limiti della possibilità di contrastare una malattia mediante la somministrazione di una certa sostanza, oltre una certa misura non è possibile continuare ad aumentare le dosi, pena procurare danni maggiori. La stessa cosa avviene in agricoltura con gli antiparassitari. Potremmo poi citare esempi in ambito tecnologico, ma anche nel mondo delle organizzazioni, dei gruppi e delle aziende, dove, a fronte di cambiamenti ormai inevitabili, non sempre maggiori mezzi, più persone e più soldi, garantiscono buoni risultati, quando non preludono a clamorosi fallimenti.

Mutare schema, osservare le cose da un nuovo punto di vista, cambiare paradigma, sembra essere la vera difficoltà: “io ti parlo e tu non mi capisci, lo ripeto ma ancora non comprendi quello che ti voglio dire, allora comincio ad alzare la voce, e poi urlo e mi agito”, ma il risultato non cambia. Non c’è nessuna differenza, a livello concettuale, tra questo piccolissimo esempio di vita quotidiana e la vicenda emblematica della Kodak. Fu un suo ingegnere (Steven Sasson) a creare nel 1975 il primo prototipo di apparecchio fotografico digitale, ma il board aziendale rifiutò quel progetto, perché rendeva inutile l’oggetto (la pellicola) che era all’origine della storia, dell’identità e del successo di quella azienda. Nel 2012 la Kodak, un gigante dell’imprenditoria nordamericana, dichiara il fallimento. Le piccole esperienze di ogni giorno e i grandi sistemi, si legano mirabilmente nel trasmetterci questa regola bizzarra alla base di molti fallimenti: “maggior dose dello stesso rimedio”.

 

Che fare?  Strategie d’intervento

Abbiamo imparato che il cambiamento è un fenomeno complesso e delicato nel medesimo tempo, che la resistenza al cambiamento ha un significato molto umano, che questo fenomeno non si può aggredire con la forza. Il cambiamento resiste agli incrementi quantitativi, ci chiede di generare una “qualità diversa”. Il vero processo di cambiamento è determinato da un “salto logico”, dalla capacità di osservare il medesimo problema da una nuova prospettiva, da un diverso punto di vista. Il salto “a gambero” di Dick Fosbury alle olimpiadi di Città del Messico nel 1968, è una meravigliosa sintesi di quello che stiamo raccontando.

A questo punto però è d’obbligo porsi una domanda: dobbiamo rassegnarci a soluzioni geniali ed estemporanee, oppure è possibile costruire un modello pratico d’intervento? La natura del cambiamento è tale da rendere molto difficile la possibilità di concepire un “metodo” in grado di affrontare qualunque situazione. È possibile tuttavia, identificare con precisione alcuni importanti passaggi, capaci di creare le giuste premesse per la costruzione di una efficace strategia d’intervento. Proviamo a procedere in questo senso approfondendo alcuni fondamentali concetti:

Consapevolezza: per quanto apparentemente ovvio, ma non affatto scontato, un buon livello di consapevolezza è un elemento fondamentale per poter gestire efficacemente il processo di cambiamento. La prima difficoltà risiede in una corretta e lucida visione del problema, finalizzata a identificare con precisione e concretezza la posizione attuale e i passi necessari da intraprendere per attuare il cambiamento. A questa prima analisi, che potremmo definire abbastanza razionale, segue un percorso di consapevolezza teso a comprendere le resistenze che si sono manifestate, o che siamo in grado di prevedere, insieme alle eventuali tentate (e fallite) soluzioni. È facile a questo punto comprendere (e l’esperienza ulteriormente ce lo conferma) che alcuni di questi passi rendono spesso indispensabile un aiuto esterno: coach, terapeuta, consulente, ecc., in relazione ai diversi contesti che possiamo immaginare.

Motivazione: una piena e sincera motivazione, rappresenta il “carburante” indispensabile per affrontare un viaggio che in alcuni casi può rivelarsi lungo e faticoso. L’errore più frequente, in questi casi, è pensare di poter imporre il cambiamento. Senso, libertà e responsabilità, sono le parole che dovrebbero guidare la ricerca di una vera motivazione. Nessuno può sostituirsi a noi nel costruire la motivazione necessaria, per questa ragione è importante che il significato del nostro impegno non ci venga imposto. Ognuno deve ricercare il valore e il significato delle proprie azioni in piena libertà, attraverso una consapevole assunzione di responsabilità.

Natura della resistenza: comprendere la natura della resistenza è un passo molto importante per costruire una efficace strategia. A volte la resistenza è un problema di natura meramente cognitiva: una mancanza di flessibilità da parte dei modelli interpretativi della realtà che dobbiamo affrontare. La migliore risorsa in queste situazioni è la creatività, ed esistono molte tecniche creative che possono rivelarsi di grande aiuto per questo scopo. Sicuramente più complessa si presenta la situazione quando la resistenza è di natura emotivo-identitaria. In questi casi la difesa assume spesso una valenza conflittuale, perché il soggetto (individuo o gruppo) si sente minacciato sul piano dei valori, fino a vivere il cambiamento come l’abbandono completo degli scopi e delle motivazioni alla base della sua identità.

Ci vuole intelligenza e molta sensibilità per affrontare queste situazioni in chiave strategica, oltre a un grande rispetto per i comportamenti e le parole dei soggetti coinvolti, perché rappresentano il tentativo di preservare inalterata una identità faticosamente raggiunta. Le tecniche più efficaci, e insieme più eleganti in queste situazioni, sono le strategie psicologiche di “ristrutturazione del problema”, la cui trattazione va oltre i limiti di questo spazio, possiamo tuttavia fare cenno all’importante lavoro di Watzlawick, Weakland, Fisch, “Change”, pubblicato in Italia nel 1974, che raccolse un grande interesse tra gli operatori del settore. All’interno di questo testo è possibile trovare un’ampia trattazione della: “sottile arte della ristrutturazione”

Le sfide del futuro ci chiederanno sempre più spesso di “cambiare pelle”, di modificare la nostra cultura organizzativa, di accogliere nuove esperienze, di acquisire nuove conoscenze. Ci può guidare in questo viaggio la consapevolezza della natura complessa e spesso paradossale dei fenomeni legati al cambiamento, che non amano essere aggrediti con la forza.  Se vogliamo avere al nostro fianco persone motivate a intraprendere questi cambiamenti, dobbiamo essere capaci  di indicare con precisione dove siamo, dove vogliamo andare e il percorso necessario per arrivarci.

Bibliografia:
Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fisch   Change: sulla formazione e la soluzione dei problemi   Astrolabio,  Roma 1974
K.R. Popper,  K. Lorenz          Il futuro è aperto,                                         Rusconi, Milano 1989
Lorenz                   E l’uomo incontrò il cane,                                             Adelphi, 1973

La pratica del Coaching nell’era dello Stress

Massimo Berlingozzi  e  Diego Ingrassia
Pubblicato su:  Psicologia Contemporanea  –  settembre/ottobre  2018  n° 269
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Nel 1936 Hans Selye, un giovane medico austriaco, stava conducendo alcuni esperimenti nel suo laboratorio di Montreal, durante i quali doveva iniettare nei topi liquidi di natura diversa. Le osservazioni relative alle reazioni fisiologiche degli animali lo portarono, in maniera del tutto indipendente dagli scopi originari della ricerca, a elaborare una teoria denominata “Sindrome generale da adattamento”. Quando decise di definire, sinteticamente, l’insieme di questi fenomeni con un termine fino ad allora utilizzato nello studio dei metalli, “stress”, non avrebbe mai potuto immaginare di aver coniato un concetto che nel giro di pochi anni sarebbe diventato l’emblema di un’epoca. Un’epoca magistralmente rappresentata da una pellicola che uscì nelle sale cinematografiche in quello stesso 1936, “Tempi moderni”, nella quale il genio di Charlie Chaplin metteva in scena uno Charlot incapace di resistere ai ritmi della macchina nella catena di montaggio, fino ad essere risucchiato dai suoi ingranaggi. Gli studi di Selye ebbero nel giro di pochi anni una grande risonanza, l’importanza del suo lavoro risiede nell’aver portato l’attenzione della ricerca sulla risposta adattiva di un organismo sottoposto all’influenza di fattori esterni. Interessante, da questo punto di vista, la definizione di Lazarus e Folkman (1984): “Lo stress è una transazione tra la persona e l’ambiente, nella quale la situazione è valutata dall’individuo come eccedente le proprie risorse e tale da mettere in pericolo il suo benessere”. 

Le condizioni lavorative odierne sono molto diverse dalla rappresentazione cinematografica di Chaplin in “Tempi moderni”, le normative sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori, almeno nei paesi più avanzati, hanno decisamente migliorato la situazione. Il lavoro rimane comunque la causa più importante di stress, ma le cause si sono spostate da un malessere determinato prevalentemente dal logoramento fisico a quello generato da tensioni accumulate nelle relazioni sociali. E’ importante tuttavia aggiungere che non è possibile stabilire un criterio oggettivo per valutare il potenziale “stressante” di un certo stimolo ambientale, l’accento posto in questa direzione nei lavori di Folkman e Lazarus, sulla valutazione soggettiva dell’individuo, trova piena concordanza con le intuizioni pioneristiche di Selye, che spiegava: “Così, si può senz’altro affermare che lo stress non dipende tanto da ciò che facciamo o da ciò che ci accade, quanto dal modo in cui lo interpretiamo”. Ed è proprio su questa affermazione che è necessario soffermarsi, perché in essa è possibile individuare sia l’origine del problema che le possibili soluzioni. Il concetto di stress infatti è cosi connaturato con le abitudini e i ritmi del nostro tempo da sembrarci del tutto normale, e questa apparente normalità ci pone nella condizione del pesce che non s’interroga sull’acqua in cui nuota. E’ a partire da queste considerazioni che assumono un significato preciso le nozioni di eustress (stress positivo) e distress (stress negativo). Non è difficile infatti constatare che attività estremamente gravose dal punto di vista fisico e mentale, come alcuni sport cosiddetti estremi, ma più semplicemente anche molte attrazioni presenti in popolarissimi parchi avventura, vengano liberamente scelte come forme di svago e divertimento. Mentre compiti infinitamente meno gravosi richiesti da normali attività lavorative possano determinare forme di disagio tali da richiedere l’intervento di uno specialista.

Risulta più facile a questo punto comprendere come la condizione di eustress sia determinata dalla consapevolezza di essere perfettamente in grado di governare la situazione mantenendo lucidità ed equilibrio. Questo tipo di risposta produce gratificazione e migliora l’autostima. I fattori che invece generano distress sono generati dell’essere costretti a subire una situazione percepita come negativa, non riuscire a organizzare una risposta efficace e pensare di non poter fare nulla per sottrarsi a questo disagio. Questa situazione produce logoramento fisico e mentale, senso di frustrazione e uno stato di malessere progressivamente crescente. La possibilità di gestire efficacemente situazioni potenzialmente stressanti è quindi strettamente legata alla capacità di produrre efficaci strategie di risposta.  Tali strategie definite di “Coping” comprendono l’insieme delle azioni, di tipo cognitivo e comportamentale, messe in atto intenzionalmente dal soggetto con lo scopo di “fronteggiare” l’impatto negativo dell’evento stressante. Strategie di risposta che rappresentano il risultato di una lunga elaborazione dell’esperienza personale, e dunque intimamente legate alle caratteristiche individuali del soggetto. Considerazione questa molto importante quando siamo chiamati ad affrontare questa tematica all’interno di una relazione di coaching.

Come è noto il coaching è una pratica che parte da un’attenta analisi della situazione presente, rende chiaro il traguardo auspicato e, attraverso un lavoro sul livello di consapevolezza e di responsabilizzazione del coachee, punta ad avvicinarsi il più possibile al raggiungimento della situazione desiderata. Si tratta quindi di mobilitare le risorse della persona per raggiungere l’obiettivo in modo efficace: un progetto che riguarda la sfera personale o professionale del cliente in una logica di proiezione verso il futuro, trascurando intenzionalmente lo sguardo retrospettivo. Il mondo del lavoro attuale è caratterizzato da un aumento dei livelli di complessità e incertezza, i nostri clienti ci riportano sempre più spesso situazioni nelle quali un comportamento consolidato e considerato come punto di forza nell’ambito di specifici contesti, si trasforma, nell’arco di un tempo molto breve, nella causa di numerosi problemi. Situazioni ad alto indice di stress, spesso aumentato dal senso di solitudine che i manager provano all’interno delle dinamiche di relazione nelle quali sono coinvolti. E’ naturale comprendere quanto sia difficile accettare questa situazione, e quanto sia importante affrontarla con la massima cura e attenzione. Quanto più aumentano i livelli di complessità e responsabilità in una attività professionale, tanto meno ci si può limitare a dipendere dalla sola competenza tecnico-specialistica. L’evoluzione dei processi all’interno delle organizzazioni e il continuo mutamento dei contesti e delle dinamiche di relazione, generano situazioni di disagio e fatiche che vengono percepite come fortemente limitanti rispetto alla propria capacità di azione e di espressione. Si rendono a questo punto necessarie, o meglio indispensabili, forti competenze relazionali e una buona padronanza della propria sfera emotiva.

Alcune ricerche hanno messo in luce come insuccessi e fallimenti possano essere spiegati attraverso i cosiddetti “fattori di deragliamento”: blocchi individuali e limiti personali che nascono quasi sempre da una mancata consapevolezza delle proprie dinamiche emotive e delle loro conseguenze. Questi fattori limitanti si manifestano nella difficoltà ad avere relazioni positive, nella scarsa capacità di gestire le emozioni quali ad esempio la rabbia, la paura o il disprezzo per ciò che viene percepito come diverso o lontano da sé. Oppure attraverso blocchi relativi al processo di decision making o nei disagi legati alla faticosa e difficile relazione con il potere sia agito che subito. Situazioni nelle quali una adeguata attività di coaching può essere la soluzione efficace. In merito alla gestione dello stress l’attività di coaching è in grado di fornire un valido aiuto per comprendere con maggiore lucidità la natura del problema, aumenta il livello di consapevolezza rispetto al coinvolgimento emotivo specifico, in altri casi riesce ad individuare un insieme di attività mirate a ridurre la tensione generata dallo stress negativo. Può essere utile a questo riguardo descrivere sinteticamente le principali strategie di coping:

Coping focalizzato sul problema: sono strategie che mirano a risolvere oppure modificare la situazione avvertita come minacciante. Nell’ambito di queste soluzioni è determinante l’apporto di tipo cognitivo, all’interno di una successione di fasi che possiamo riassumere in questo modo: attenta analisi della situazione; identificazione delle cause scatenanti; valutazione di alternative o possibili soluzioni; applicazione delle soluzioni individuate.

Coping centrato sulle emozioni: determinante in queste soluzioni l’apporto dell’intelligenza emotiva mirata al raggiungimento di un nuovo equilibrio. Il primo passaggio consiste nell’identificare e descrivere i comportamenti che mettiamo in atto per difenderci. Successivamente è importante comprendere il livello del nostro coinvolgimento emotivo e sviluppare consapevolezza rispetto alla natura delle nostre reazioni emotive, che possono rivelarsi efficaci oppure disfunzionali.

Coping centrato sulla ristrutturazione del problema: dal momento che lo stress, come abbiamo già visto, non dipende tanto da quanto accade ma da come noi interpretiamo la situazione, la ristrutturazione del problema consiste nel diventare capaci di attribuire un diverso significato alla situazione che ci procura disagio. La ristrutturazione è una tecnica molto raffinata ed efficace che richiede consapevolezza e un elevato grado di flessibilità mentale, ed è ovviamente più facile da realizzare attraverso un aiuto esterno.

Coping centrato sull’attività: in alcuni casi possono rivelarsi efficaci soluzioni che mirano a una riduzione della tensione generata dallo stress negativo attraverso la pratica di alcune attività sportive, esercizi specifici, oppure tecniche di rilassamento. Da alcuni anni ha preso piede la “Mindfulness”, una pratica meditativa di derivazione orientale adattata da Jon Kabat-Zinn, un professore di medicina della School of Medicine dell’Università del Massachussets, che nei primi anni 80’ ha sviluppato un protocollo: (MBSR) Mindfulness Based Stess Reduction, per introdurre la pratica della meditazione in contesti clinici.

In merito alla gestione attiva dello stress negli ultimi anni si è affermato un ulteriore concetto mutuato dallo studio dei materiali: la “resilienza”. Qualcuno individua le origini di questa parola nel termine latino, “resalio”, che indicava il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare. C’è una frase di Ernest Hemingway che rappresenta bene questo concetto: “La vita ci spezza tutti, ma solo alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati”. Più prosaicamente possiamo affermare che la persona resiliente è particolarmente capace nel mettere in atto efficaci strategie di coping, non si lascia mai sopraffare dagli eventi, affronta le avversità con motivazione e fiducia, convinto di poter trovare una soluzione.

Infine è utile ricordare che non esiste una strategia di coping migliore di un’altra, l’esperienza maturata nell’attività di coaching ci insegna che è l’interazione tra più strategie a poter fornire i risultati migliori. L’aspetto determinante è quindi la flessibilità, la capacità dinamica di cambiare quando necessario e di apprendere da nuove esperienze, e soprattutto: un atteggiamento positivo e di fiducia nelle proprie possibilità che porta ad agire, per sentirsi protagonisti e non soggetti passivi in balia degli eventi.

 

Bibliografia:
Lazarus, R. S.; Folkman, S. (1984) Stress, appraisal and coping. New York – Springer Publishing Company
Pancheri, P. (1980) Stress, emozioni, malattia. Introduzione alla medicina psicosomatica.  Milano Ed. Mondatori

La dimensione negoziale

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Leadership & Management Magazine  –   settembre 2018
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Dappertutto gli uomini non fanno altro che togliersi o vincersi qualcosa a vicenda
 Fёdor Dostoevskij  “Il giocatore

 

La negoziazione è un’arte molto complessa. La parola arte non è scelta a caso per definire un’attività umana sulla quale sono stati scritti centinaia di libri, che hanno cercato ispirazione e risposte attraverso discipline anche molto diverse tra loro: psicologia, antropologia, sociologia, economia, scienze della politica e filosofia. Senza dimenticare che, caso unico nell’ambito delle relazioni umane, gli studi sulla negoziazione hanno potuto beneficiare di una trasposizione formale nel linguaggio matematico della “Teoria dei giochi” (Von Neumann e Morgenstern 1944). In questo articolo mi limiterò a cercare di definire, nel modo più semplice e chiaro possibile,  l’essenza della “dimensione negoziale”. È un aspetto fondamentale, perché l’esperienza di molti anni di formazione in questo campo mi ha insegnato che anche le migliori tecniche, strategie e competenze, possono fallire in assenza di una piena consapevolezza riguardo al “senso” della dimensione negoziale.

C’è una famosa scena in “Gioventù bruciata”, il film del 1955 che ha consacrato il mito di James Dean, nella quale due giovani si sfidano nel pericoloso “gioco del pollo”. Una prova che consiste in una gara tra due auto lanciate a forte velocità, per vedere chi avrà il coraggio di gettarsi fuori dall’abitacolo per ultimo, prima che l’auto precipiti nello strapiombo. Nel film in questione la sfida si conclude tragicamente, perché uno dei due contendenti rimane impigliato nella maniglia dello sportello e precipita in mare. Ma l’esito del gioco, senza questo incidente, avrebbe dovuto essere diverso e stabilire dunque, in modo inequivocabile, chi vince (colui che si lancia dopo) e chi perde: “il pollo” (colui che si lancia prima). Il significato metaforico del gioco è fin troppo chiaro: alzare il livello della sfida restringe le possibilità del confronto fino a indirizzarle in un vicolo cieco, nel quale alla fine non si potrà che stabilire chi ha vinto e chi ha perso. Paradossalmente, nel pericoloso gioco di sfida rappresentato nel film, esiste una possibilità in cui entrambi i contendenti potrebbero risultare “vincenti”: la situazione nella quale nessuno dei due cede ed entrambi muoiono. Nell’universo simbolico delle bande giovanili protagoniste del film, questo equivarrebbe ad assurgere alla figura di “eroe”. Soluzione evidentemente folle, ma che a livello metaforico rivela la sua natura: quella dell’“etica della convinzione” che Max Weber contrapponeva all’“etica della responsabilità”. Un’etica quindi mai disposta a scendere a mediazioni e compromessi pur di mantenere integri e inalterati i suoi principi (anche a fronte di risultati catastrofici).

Il gioco di sfida del film rivela, seppure nelle sue forme azzardate, il tentativo di risolvere una disputa, un conflitto, una divergenza. Questo intento è anche uno dei requisiti essenziali affinché un confronto tra due parti venga definito negoziale. Quello che rifiutano i protagonisti del film, ma anche molti dei soggetti coinvolti in situazioni reali, è accettare pienamente la seconda condizione, che rappresenta l’altro requisito necessario per definire le forme di un confronto come negoziali. Questa seconda condizione è il “vincolo di interdipendenza”, situazione in cui l’obiettivo di ognuna delle parti può essere raggiunto solo attraverso l’altra: nessuna delle parti coinvolte nell’interazione dispone di tutto il potere, l’azione di ognuna delle parti in gioco influenza e dipende dall’azione dell’altra. Nella dimensione negoziale siamo dunque chiamati a dover “influenzare” e “dipendere” nello stesso momento. Diventare pienamente consapevoli di cosa significa agire all’interno dei vincoli di questa precisa condizione, è l’elemento di maggiore complessità e difficoltà della dimensione negoziale. La negoziazione da questo punto di vista può essere considerata come uno dei frutti più alti della nostra civiltà, l’unico strumento di confronto sociale capace di risolvere i conflitti generando valore. Per millenni gli esseri umani hanno risolto i loro confitti (e continuano a farlo) attraverso la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di sottomettersi (dipendere) solo se sconfitti. Per la nostra mente quindi è estremamente difficile far accadere e coesistere queste due forme di relazione all’interno della medesima situazione: imporre/accettare; affermare/concedere; influenzare/dipendere.

La consapevolezza di questo limite della natura umana era ben chiara a un geniale pedagogista, Loris Malaguzzi, creatore a partire dagli anni 60’ di un modello di scuole per l’infanzia divenute molto note anche all’estero sotto il nome di “Reggio Emilia Approach”. Per affrontare questa difficoltà aveva ideato un gioco molto efficace: stendeva sul pavimento un grande foglio che conteneva la sagoma di un animale e chiedeva ai bambini di ricalcare il bordo di quella sagoma con una matita colorata a loro disposizione. La matita di ognuno di loro era però legata alle matite di tutti gli altri mediante una fitta ragnatela di sottili cordicelle. Ogni singolo bambino si accorgeva a questo punto che, in alcune fasi poteva avanzare e in che altri momenti invece era necessario fermarsi per far procedere qualcun altro, fino a quando, diminuita la tensione della corda, poteva nuovamente spingere in avanti la sua matita. Non era necessaria dunque nessuna elaborazione cognitiva, i bambini sperimentavano direttamente sul loro corpo, fisicamente, questo strano ossimoro: per poter procedere devi fermarti.

Ritornando al linguaggio della teoria dei giochi, sappiamo quindi che possiamo contrapporre al modello “io vinco tu perdi” (giochi a somma zero), la possibilità di far evolvere la relazione negoziale fino alla possibilità di poter “vincere insieme” (giochi a somma diversa da zero), ma lasciamo alle parole di Paul Watzlawick il compito di mostrarci questa semplice verità, così difficile da accettare:

Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero? Che si può vincere insieme non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non esserne battuti? E che (cosa del tutto inconcepibile per lo scaltro giocatore a somma zero) si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, la vita?   

 

Bibliografia:
Rumiati, D. Pietroni                         La negoziazione                                     Raffaello Cortina,  Milano  2001
Weber                                    Il politeismo dei valori                                     Morcelliana,  Brescia 2010
Watzlawick                 Istruzioni per rendersi infelici                         Feltrinelli,  Milano 1997

La Grammatica della Relazione: un approccio strategico alla Comunicazione

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Leadership & Management Magazine  –  luglio 2018
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L’esito ideale di un atto comunicativo è la piena comprensione, da parte dei nostri interlocutori, del significato del nostro messaggio. Sappiamo tuttavia molto bene quanto sia facile essere fraintesi, e questo può accadere a livello puramente informativo oppure coinvolgere anche la componente relazionale. Parlare è un’attività così naturale che è del tutto normale dimenticarsi l’enorme complessità che la sostiene. Eppure, ognuno di noi quando parla utilizza e rispetta un insieme di regole in assenza delle quali le frasi pronunciate risulterebbero del tutto incomprensibili. Molte di queste regole le abbiamo apprese in modo naturale e spontaneo, attraverso l’ascolto e l’imitazione, quando eravamo molto piccoli. Noam Chomsky, il più grande linguista vivente, sostiene che questa abilità è una caratteristica unica della specie umana, una specializzazione cognitiva legata a una dotazione biologica innata codificata nei nostri geni. Una sorta di “Grammatica Universale” capace di elaborare all’infinito simboli astratti, all’origine di tutte le lingue. Quello che sappiamo tutti, invece, è che la scuola si è fatta carico di renderci consapevoli di molte delle regole che sono alla base di un uso corretto della  lingua, migliorando quindi la nostra capacità di elaborare messaggi via via più complessi.

Esiste tuttavia una grammatica che a scuola nessuno ci ha insegnato. Conosciamo le parole, siamo capaci di sceglierle e combinarle in mille modi diversi in relazione alla situazione che stiamo vivendo, siamo invece molto meno consapevoli delle regole che presiedono alla costruzione delle relazioni. Ci fidiamo del nostro istinto, cerchiamo di limitare il disagio, desideriamo stare bene nelle relazioni, ma solo raramente riusciamo a guidare queste situazioni in modo consapevole. Eppure, tutti gli studi sulla comunicazione ci insegnano che la possibilità di comprendersi vicendevolmente aumenta in modo significativo in relazione al livello di sintonia che riusciamo a stabilire con i nostri interlocutori. Gli studi orientati a comprendere l’importanza del contesto e gli effetti della comunicazione sul comportamento fanno parte di una disciplina, definita “pragmatica”, che ha avuto, agli inizi degli anni 60’, un notevole impulso da parte della cosiddetta “Scuola di Palo Alto”. Una visione di tipo sistemico che ha rivoluzionato il modo di guardare la comunicazione, gettando le basi per un approccio strategico alla gestione delle dinamiche relazionali. Studi che hanno generato un campo di applicazione molto vasto: psicoterapia, relazioni di aiuto, attività negoziali e di management. L’esponente più conosciuto di questo gruppo e l’autore che ha dato i contributi più rilevanti, è Paul Watzlawick.

La natura delle relazioni nelle quali siamo quotidianamente coinvolti, viene costruita attraverso una serie di “negoziazioni implicite”, che Gregory Bateson chiamava “Proposte di relazione”. Dinamiche che in genere sfuggono alla nostra attenzione, ma che sono determinanti per definire i ruoli all’interno dei processi di comunicazione. Un’adeguata consapevolezza di quanto avviene a questo livello è una competenza di fondamentale importanza, in assenza della quale qualunque strumento di comunicazione rischia di risultare una sterile applicazione di tecniche, avulse dal contesto di riferimento. Nei percorsi di formazione dedicati a questo tipo di approccio è importante andare oltre l’approfondimento teorico e dedicare un tempo cospicuo a un training specifico, finalizzato ad acquisire consapevolezza del proprio stile di comunicazione e delle modalità attraverso cui noi influenziamo gli altri. Più in generale, l’opportunità di approfondire questi temi ci aiuta a comprendere come l’attenzione ai comportamenti e l’ascolto attivo non appartengano solo alla sfera della sensibilità e del rispetto, ma siano anche la premessa indispensabile per affrontare in modo strategico la comunicazione.

Abbandonata la visione statica o meramente informativa del processo comunicativo, ci appare evidente la sua natura circolare e sistemica, nella quale il nostro comportamento (nel medesimo tempo) influenza e dipende dal comportamento dell’altro. Ogni tentativo di eludere questo livello di complessità porta a visioni riduttive e parziali di quanto avviene nell’interazione, impedendo, ancor prima di un atteggiamento etico, un approccio efficace e consapevole alla comunicazione.

Bibliografia:
Watzlawick, J. Beavin, D. Jackson    Pragmatica della comunicazione umana  Astrolabio,  Roma 1971
Watzlawick           Il codino del Barone di Munchhausen             Feltrinelli,  Milano 1989
R.C. Berwick, N. Chomsky       Perché solo noi              Bollati Boringhieri,  Torino    2016

Dall’ufficio al lavoro in ogni luogo, la gerarchia fa spazio alla fiducia

Massimo Berlingozzi e Patrizia Sangalli
Pubblicato su: Persone e Conoscenze  ESTE  –  maggio/giugno 2018  n° 129
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Il primo articolo della nostra Costituzione assegna un valore così alto al lavoro da definirlo il “fondamento” della nostra Repubblica. Ci restituisce nello stesso tempo un’immagine di grande solidità, tanto da considerare il lavoro come la base, le fondamenta, su cui si organizza la convivenza e il benessere del nostro popolo. A distanza di settant’anni possiamo esprimerci su questo tema con la medesima convinzione? Contrasta, con questa immagine di solidità, il ritratto che ci ha lasciato il grande sociologo recentemente scomparso, Zygmunt Bauman, con la sua definizione di “società liquida”. L’immagine di una società che ha perso il senso di comunità, la sicurezza e le certezze di un tempo, un mondo in cui avanza un individualismo sfrenato che mina alla radice le relazioni tra le persone e il concetto di identità. Questo scenario ovviamente contamina e condiziona il lavoro che diviene effimero, volatile, soggetto a continui mutamenti, mero sostegno economico finalizzato al consumo.

Sono tre in particolare gli elementi fondamentali per comprendere il mutamento epocale che ha investito il mondo del lavoro in questi ultimi anni: la dimensione fisica del luogo di lavoro, l’organizzazione dello spazio e la struttura del tempo. Con la loro radicale trasformazione si dissolvono di fatto gli assi cartesiani di un sistema sostanzialmente immutato dall’inizio della rivoluzione industriale. Per molto tempo lavorare ha significato recarsi in un luogo preciso, uno spazio fisico, che rappresentava un ambiente sociale di aggregazione capace nel tempo di generare “senso di appartenenza” e “idea di comunità.” Tutto questo avveniva in un tempo definito, scandito da rituali precisi che separavano il tempo del lavoro da quello delle relazioni sociali – private e di comunità – quello che con l’avvento della modernità verrà definito: il “tempo libero”. Oggi molto poco è rimasto di tutto questo, i luoghi di lavoro perdono sempre più frequentemente pezzi della loro identità. In nome dell’efficienza produttiva si decide di spostare il lavoro, delocalizzarlo, oppure sostituire lo spazio fisico con “luoghi digitali”, spazi virtuali. La perdita del radicamento dissolve il senso di appartenenza, il tempo per il lavoro e quello personale si confondono, nella dimensione digitale siamo sempre connessi, le relazioni non conoscono limiti e non sono soggette a barriere temporali. La “connessione” ha sostituito il “legame”.

La collocazione fisica del lavoro perde rilevanza

Lo scenario descritto ci pone di fronte a domande che potrebbero sembrare provocatorie, ma che invece dobbiamo cominciare a considerare fisiologiche nella realtà attuale: Dove Lavorare? Dove si vuole. Quando lavorare? Quando si vuole. Situazioni che negli ultimi venticinque anni hanno costituito una larga parte del dibattito relativo alla grande trasformazione del lavoro contemporaneo. Non è possibile in questo spazio tracciarne la storia, ma in sintesi questo capitolo si apre con il declino inesorabile del fordismo, l’affermarsi del fenomeno della globalizzazione e del conseguente decadimento degli schemi classici del lavoro dipendente. Si afferma un nuovo modo di organizzare i processi produttivi, emergono forme atipiche e autonome di lavoro, si osserva una importante trasformazione dei mestieri, delle professioni, ma soprattutto delle competenze utili per far fronte ad un insieme di sfide che attendono ancora una piena risposta. In questo scenario di inarrestabile trasformazione, molto vasto e complesso, carico spesso di ambiguità, uno dei temi dibattuti sin dagli inizi degli anni novanta ha riguardato la cosiddetta flessibilità del lavoro, cioè il luogo dove lavorare e il tempo in cui lavorare. Lo hanno chiamato “lavoro agile”, “smart work”, “telelavoro”, “home working”, “remote working”, nasce come nuovo paradigma dell’organizzazione del lavoro, si tratta di superare l’idea delle tradizionali postazioni di lavoro negli uffici chiusi, ma anche quelle in open space, per fare spazio a una nuova concezione in cui la collocazione fisica perde rilevanza, a vantaggio di qualsiasi altro luogo il lavoratore scelga.

Nuovi leader per nuove modalità di lavoro

 È indubbio che l’evoluzione tecnologica e la digitalizzazione hanno costituito fin dagli inizi la struttura portante di questa rivoluzione, e il dibattito che ne è seguito ha visto in campo molteplici aspetti:

  • la globalizzazione delle aziende e i nuovi modelli organizzativi basati su processi
  • la globalizzazione e la diversa dislocazione dei membri di uno stesso team
  • l’opportunità per le aziende di ottimizzare i costi
  • il crescente desiderio di una migliore conciliazione tra lavoro e vita personale
  • la necessità di maggiore flessibilità
  • la crescita di professionalità

ma al tempo stesso la necessità di:

  • ridisegnare il rapporto di lavoro rispetto agli aspetti legali e contrattuali
  • mantenere un sistema di controllo
  • evitare di disperdere il valore sociale dell’organizzazione
  • ripensare a una leadership capace di fronteggiare una nuova e crescente complessità
  • sviluppare competenze differenti rispetto al passato

Il Lavoro agile, o “smart work” che dir si voglia, ha accompagnato in tutte le sue fasi di sviluppo una svolta epocale, l’affermarsi di un nuovo modo di lavorare, senza ombra di dubbio più flessibile e, almeno nelle intenzioni, più equilibrato. Ma cosa implica e cosa comporta lavorare “in remoto”? Cosa significa per le persone? Cosa cambia nella gestione di una organizzazione così strutturata? Quali sono gli impatti per chi ha responsabilità di guida? È infatti lo stile di leadership l’elemento di cultura aziendale esposto ai più profondi cambiamenti. Il primo passo è la necessità di rivedere la struttura della relazione tra le persone: da una logica gerarchica, basata sul controllo – spesso diretto, immediato, a vista – a una logica che fa leva sulla fiducia tra e verso le persone. E non solo: è necessario passare da una osservanza rigida della gerarchia aziendale, al valore delle competenze e all’appartenenza a un network professionale. Si trasforma il paradigma gestionale: diventa necessario concentrare la propria azione sul raggiungimento degli obiettivi, superando l’antico vincolo delle misure della performance, quali la presenza e il tempo. Per il leader diventa fondamentale la capacità di delegare, concedere spazi di autonomia e un aumento delle responsabilità del collaboratore. Imparare ad accettare che il collaboratore porti a termine il lavoro seguendo una sua strada, con risultati a volte anche più efficaci di quanto avrebbe fatto nella vecchia modalità. Tutto questo rappresenta non solo un cambio di mindset, ma una vera e propria trasformazione del modo di essere leader, soprattutto nell’aver assimilato il valore della diversità, che consente di apprezzare modalità di lavoro diverse dalle proprie.

Il successo passa dal cambiamento culturale

 Si modifica sostanzialmente lo spazio d’intervento, dai tradizionali “cosa” e “come” fare, il focus e l’enfasi gestionale si spostano sul “perché” fare, che nella sua semplicità rimane il solo modo di “ingaggiare” le persone, di agire sulla loro motivazione intrinseca al lavoro: primo passo e garanzia verso la crescita della responsabilizzazione e della autonomia. Si apre quindi un nuovo mondo, un mondo in cui il cambiamento culturale dell’organizzazione diventa il fattore critico di successo. A questo punto è fondamentale riuscire a identificare le competenze distintive per guidare questa inevitabile fase di cambiamento che lo sviluppo tecnologico e i processi di internazionalizzazione richiedono. Vediamone qui di seguito alcune:

  • Collaborazione: se muoviamo oltre i codici noti e talvolta abusati – teamwork o lavoro di squadra – e andiamo alla ricerca dell’essenza, scopriamo che lavorare tra e con persone “diverse”, in una logica autenticamente collaborativa, ha un valore strategico per l’organizzazione. Significa approfondire l’arte della comunicazione, imparare l’ascolto vero, essere capaci di alimentare la fiducia e chiederci quanto siamo disposti a rischiare per un risultato comune.
  • Flessibilità: la capacità accogliere e dialogare con visioni e prospettive diverse. Sappiamo che la nostra mente, pur nella sua grandiosità, lavora attraverso processi di estrema sintesi, il che significa che “modelli mentali” e bias sono un fatto assolutamente naturale. Acquisire consapevolezza di questi meccanismi, riconoscere che nessuno di noi è immune, è l’unico modo per difendersi dalla formazione dei pregiudizi.
  • Gestione del cambiamento: è uno dei temi maggiormente sentiti, e vissuti negli ultimi venti anni nelle organizzazioni. Una piena consapevolezza di quanto accade nei processi di cambiamento è la premessa indispensabile per poter sviluppare strategie in grado di superare chiusure e resistenze.
  • Resilienza: affrontare le difficoltà con una mentalità diversa. Essere resilienti non significa opporsi alle pressioni dell’ambiente, ma riuscire ad attivare una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, nonostante le crisi. Un percorso che permette la costruzione, anzi la ricostruzione, di un nuovo equilibrio di vita. Si tratta di un’abilità di grande valore, che attinge le sue risorse da una “forza intelligente”.
  • Riconoscere e valorizzare la Diversity: racchiude, sintetizza e amplifica, l’insieme delle competenze necessarie per affrontare il “lavoro che cambia”, qualità che investono i processi di relazione, la sfera emotiva, ma anche le competenze operative fortemente influenzate da background individuali e culturali, come: la gestione del tempo; le modalità decisionali e l’organizzazione delle riunioni. Una vera e propria abilità sistemica che ci permette di riconoscere la struttura valoriale di una persona o di un gruppo di persone, per poter entrare in relazione in modo efficace e strategico.

 Valorizzare il Diversity management

Lavoro Agile e Diversity dunque, sono i temi sui quali è indispensabile avviare una profonda riflessione. Il lavoro del futuro vedrà sempre più spesso la presenza di team interconnessi, eterogenei per professionalità, preparazione, lingua madre, cultura di appartenenza e mix generazionale (fino a quattro generazioni diverse nello stesso team), dislocati ai quattro angoli del pianeta. Una prospettiva nella quale una mente flessibile ed empatica diviene un requisito indispensabile per il successo. Entrare in relazione con chi lavora a qualche migliaio di chilometri dalla nostra scrivania e che potremo incontrare solo saltuariamente, richiede una elevata consapevolezza che può scaturire solo da precise domande. Bisogna essere disponibili e capaci di esplorare contesti sociali, processi cognitivi e stili relazionali, culture organizzative e personali diverse dalle nostre. Comprendere i valori, le motivazioni e le aspettative nei confronti del futuro. E tutto questo ormai non è più una novità. L’evoluzione è inarrestabile e l’esigenza di mettere a terra azioni concrete che ci portino a migliorare la nostra efficacia gestionale e, di conseguenza, il successo dell’organizzazione e delle persone, diventa un imperativo che non è più possibile rimandare.

Per concludere questa analisi dobbiamo tuttavia rispondere ancora a una domanda, che in fondo sintetizza il senso di questo articolo riportandoci alla premessa iniziale. È innegabile che i cambiamenti che abbiamo descritto richiederanno uno sforzo di adattamento a scenari e logiche molto diverse da quelle che abbiamo conosciuto fino a non molti anni fa. Saremo capaci di conciliare le richieste di efficienza che arriveranno dalle organizzazioni impegnate nei processi di innovazione, con i bisogni e le motivazioni delle persone coinvolte? Il mondo della formazione si trova di fronte a una grande sfida, da sempre ha svolto un ruolo importante e strategico nell’organizzare e facilitare i processi di cambiamento rendendo comprensibili e accettabili i grandi mutamenti. E quando il cambiamento continuo diviene l’unica costante, la “learning organization”, l’organizzazione che si trasforma in un “sistema che apprende”, capace di integrare idee, saperi ed esperienze all’interno di un patrimonio comune, rappresenta l’unica risposta capace di coniugare l’efficienza con lo sviluppo e la crescita personale degli individui. È opinione diffusa che nei prossimi 10/20 anni assisteremo a cambiamenti di portata storica nel mondo del lavoro, dobbiamo impegnarci fin d’ora per costruire un futuro capace di governare questi processi con efficienza, lungimiranza e senso di responsabilità.