Spazio, Tempo, Velocità: le grandi mutazioni che segnano l’era del lavoro digitale

Massimo Berlingozzi – Pubblicato su Persone e Conoscenze Gruppo ESTE – novembre dicembre 2022

La storia del cinema inizia con un filmato molto noto La sortie des usines dei fratelli Lumière, proiettato in pubblico a Parigi il 28 dicembre del 1895. Si tratta di una scena molto semplice, il racconto di un normale giorno di lavoro: gli operai che escono dalle officine Lumière a Lione. Passano diversi anni, siamo nel 1936, il cinema è diventato ormai un fenomeno sociale di rilevanza mondiale quando esce Tempi moderni di Charlie Chaplin, ancora una volta è il mondo del lavoro al centro di un’opera che rappresenta magistralmente un’intera epoca. Di questo capolavoro, fortemente simbolico, è universalmente nota la scena di Charlot, incapace di adeguarsi ai tempi della macchina, risucchiato dai suoi ingranaggi. È interessante però ricordarne l’inizio. Le telecamere questa volta riprendono l’ingresso al lavoro: l’immagine è fissa su un orologio, sta per scoccare l’ora di entrata in fabbrica, sovraimpressa si legge una frase, “Tempi moderni, una storia i cui personaggi sono l’industria, l’iniziativa individuale, l’umanità che marcia alla conquista della felicità”. La scena successiva è un gregge di pecore a cui si sovrappone, immediatamente dopo, la massa dei lavoratori che esce dalla metropolitana per accedere all’interno dell’officina, dove si affollano per timbrare il cartellino. Infine, al suono della sirena, ha inizio la produzione.

Immagini apparentemente lontanissime, ma che in realtà descrivono un’antropologia del lavoro che molti di noi hanno conosciuto. Un mondo nel quale lavorare significava recarsi in un luogo preciso, uno spazio fisico che rappresentava un ambiente sociale di aggregazione capace di generare “senso di appartenenza” e “idea di comunità.” Tutto questo avveniva in un tempo definito, scandito da rituali consolidati che separavano il tempo del lavoro dal cosiddetto “tempo libero”, all’interno di uno scenario sostanzialmente stabile, che in moltissimi casi arrivava a coprire l’intero arco della vita lavorativa, influenzando profondamente gli stili di vita e il riconoscimento sociale delle persone.

Un mondo che aveva cominciato ad andare in crisi sotto la spinta della globalizzazione e con l’avvento delle nuove tecnologie. Eppure, alcuni capisaldi di quel modello resistevano, i dati disponibili ci dicevano infatti che, prima della pandemia, l’impatto della digitalizzazione sull’organizzazione del lavoro in Italia era abbastanza limitato: coinvolgeva 570 mila lavoratori. Poi è accaduto quello che sappiamo: 6-7 milioni di persone si sono trovate, nel giro di poche settimane, a lavorare “in remoto”, attraverso l’uso di strumenti digitali. Una sorta di gigantesco esperimento sociale, che nel mondo ha coinvolto decine di milioni di lavoratori, di fatto un balzo in avanti che in condizioni normali avrebbe richiesto ancora molti anni. Ci si accorge allora di essere di fronte a un cambiamento epocale, che richiederà un profondo rinnovamento culturale. La rivoluzione digitale modifica, dissolvendoli in larga parte, gli ancoraggi alla dimensione fisica del lavoro, quelli riferibili ai concetti di spazio, tempo e velocità. La dislocazione dei lavoratori in luoghi diversi, la destrutturazione dell’organizzazione temporale, il vorticoso aumento nella velocità dei sistemi di comunicazione, determinano una netta cesura con la tradizionale organizzazione del lavoro. Con la loro radicale trasformazione scompaiono di fatto gli assi cartesiani di un sistema sostanzialmente immutato dall’inizio della rivoluzione industriale.

Di fronte a un cambiamento così profondo, appare inadeguata, se non ingenuamente superficiale, la definizione di “new normal”, perché all’orizzonte non si intravede nessuna nuova normalità. Quello a cui stiamo assistendo è un cambio di paradigma, una mutazione antropologica del mondo del lavoro. L’intero sistema che conoscevamo è andato in crisi, basterebbe interrogarsi su un fenomeno come “le grandi dimissioni” per comprendere quanto sta accadendo, e non si tratta di un fenomeno solo americano, come si pensava all’inizio, la recente indagine a cura dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, dimostra che se non fossimo in presenza di un mercato del lavoro rigido, questa tendenza avrebbe ben altri numeri anche nel nostro paese. Le richieste che emergono da questa ricerca esprimono una forte esigenza di cambiamento, e rispetto al passato il miglioramento della condizione economica non sembra essere più l’unica ragione, o la ragione principale. Assumono grande rilievo, il bisogno di sentirsi coinvolti, essere parte attiva di un progetto, aver chiaro uno scopo, all’interno di contesti capaci di valorizzare l’autonomia e il senso di responsabilità.  Grande attenzione infine viene data al concetto di benessere, fondamentale in una visione del lavoro che vuole rimettere al centro le persone, in quanto attori principali e non “pedine del business”.

Si aggiunge, alla prematura e un po’ superficiale ricerca di una nuova normalità, il rischio che l’adesione alle forme di organizzazione del lavoro digitale avvenga per mero opportunismo e quindi con una scarsa consapevolezza, sia da parte delle aziende che dei lavoratori. Da un lato, i forti risparmi sul fronte dei costi fissi e la constatazione di buoni livelli di produttività, hanno fatto cambiare idea sullo smart working ad aziende che in passato lo avevano sempre ostacolato. Dall’altro lato, molti lavoratori, spesso in contrasto con le loro organizzazioni sindacali, preso atto di alcuni degli innegabili benefici e comodità del “lavoro da casa”, non intendono più tornare alle vecchie consuetudini. È chiaro, dunque, che il passaggio a una vera condizione di lavoro agile meriterebbe una riflessione più approfondita, che non può non partire dal chiedersi cosa accade alle persone, alle loro relazioni, ai processi identitari e al senso di appartenenza, nel momento in cui il cambiamento tocca e modifica l’idea di spazio, di tempo e la velocità dei processi informativi in cui siamo immersi.

Lo Spazio

Per comprendere che cosa ha rappresentato lo spazio degli ambienti di lavoro, basterebbe ascoltare le tante testimonianze di chi in quei luoghi ci ha passato una vita, magari lavorando in condizioni che oggi apparirebbero fortemente disagevoli. Perché quei racconti, accompagnati spesso dal sentimento di orgoglio di chi era consapevole di aver dato un importante contributo, aiutano a capire bene cosa significa un luogo capace di creare identità e senso di appartenenza. Un’idea molto chiara a un imprenditore visionario come Adriano Olivetti che, consegnando alla comunità quegli edifici oggi diventati patrimonio dell’Unesco, affermava: “… l’uomo che vive la lunga giornata nell’officina, non sigilla la sua umanità nella tuta da lavoro”.

E a chi pensa a questi esempi come qualcosa di ormai superato e lontano nel tempo, possono essere di aiuto le parole di Satya Nadella, CEO di Microsoft, convinto che il “capitale sociale” accumulato lavorando in presenza, sia stata la risorsa che ha consentito di mantenere efficiente la collaborazione durante la fase di forzato lavoro a distanza. Tanto da affermare: “forse stiamo bruciando una parte del capitale sociale costruito prima, in questa fase in cui lavoriamo a distanza”.

A questo punto è utile sgombrare il campo dall’idea di voler dimostrare che il lavoro in presenza sia per definizione migliore, lo scopo è quello di prendere in esame alcune fondamentali e ineliminabili differenze, spesso sottovalutate. L’enorme quantità di segnali sensoriali che percepiamo nell’ambiente naturale non è riproducibile nella dimensione virtuale. Sarebbe sufficiente riflettere sul concetto di potere per scoprire quanto i luoghi di lavoro, gli oggetti, la disposizione delle persone nello spazio, di fatto tutta la componente analogica e non verbale della comunicazione, siano determinanti nel segnalare quelle asimmetrie caratteristiche delle relazioni one up one down. Qual è il peso di queste componenti dell’interazione nella definizione delle relazioni? Quanto hanno concorso all’acquisizione di un ruolo manageriale le reali conoscenze e competenze e quanto invece una dimensione più sotterranea, istintiva e inconsapevole della leadership, che proprio delle relazioni all’interno di uno spazio fisico si alimentava? E cosa accade quando, smart working o lavoro a distanza che sia, si deve essere capaci di gestire e motivare collaboratori non più in presenza per larga parte del loro tempo?  La dimensione digitale del lavoro riduce enormemente la quantità di segnali legati alla parte più antica e istintiva della nostra comunicazione. Lo spazio virtuale è per sua natura più neutro e simmetrico nella definizione delle relazioni, condizione che può rivelarsi anche favorevole quando lo scopo dell’interazione è prevalentemente informativo, ma del tutto sfavorevole nelle situazioni che richiedono di valorizzare lo scambio emotivo-relazionale, e quest’ultima funzione è troppo importante per essere abbandonata, poiché intimamente legata alla qualità delle relazioni e al benessere delle persone.

La minore possibilità di gestire le dinamiche di relazione nella loro sede naturale impone la capacità di farlo utilizzando le moderne tecnologie di comunicazione, e questo richiede maggiore attenzione e competenza. Il gesto istintivo dev’essere sostituito dalla parola consapevole, capace di rendere esplicito, attraverso le parole (tecnicamente metacomunicare), quanto era implicitamente chiaro nella relazione naturale. Si tratta di una competenza tutt’altro che elementare e quasi del tutto estranea alla cultura del lavoro che abbiamo conosciuto finora. Allora si comprende quanto sia importante per il lavoro del futuro riuscire a gestire strategicamente queste due diverse dimensioni, reale e virtuale, presenza e distanza, guidati da scelte consapevoli rispetto alla loro composizione, ma anche attraverso l’acquisizione di nuove competenze.

Il Tempo

La destrutturazione dell’orario di lavoro è il secondo grande cambiamento prodotto dalla digitalizzazione. Un tempo erano le sirene delle fabbriche a scandire il ritmo di vita di un’intera comunità, oggi la dimensione agile del lavoro ha associato all’idea di “qualunque luogo” quella di “qualunque tempo”. Poter scegliere quali ore dedicare al lavoro non significa però passare da un tempo sociale del lavoro, formalmente riconosciuto, al rischio di una dimensione del lavoro come “flusso continuo”, confuso con il resto delle attività della nostra vita. Per questa ragione il “diritto alla disconnessione”, già discusso in Francia prima della crisi pandemica, è diventato un tema molto attuale.

Il lavoro agile richiede indubbiamente capacità di autorganizzazione, se da un lato molti apprezzano libertà e autonomia, è chiaro che devono parallelamente crescere il senso di responsabilità e l’autodisciplina, ma c’è chi si spinge oltre e si chiede: da sempre la retribuzione del lavoro è stata commisurata al tempo della prestazione, ora che questo parametro per molti lavoratori è saltato, perché non ancorare la retribuzione al raggiungimento dei risultati? Prima considerazione: la sola domanda lascia ben intuire l’entità dei processi che queste trasformazioni hanno messo in moto. Un’analisi più attenta, tuttavia, al di là della fertile provocazione, mette in luce una situazione che appare ancora molto lontana da questa prospettiva. Per ora, infatti, solo una percentuale molto ridotta dei “lavoratori in remoto” si trova in una condizione di vero smart working, lavora cioè per obiettivi. Situazione che denuncia una lentezza nei processi di riorganizzazione e un insieme di resistenze legate a una scarsa predisposizione culturale a questa modalità di lavoro. Tra l’altro, esiste da sempre una retribuzione del lavoro slegata dal parametro temporale, si tratta del lavoro a cottimo, esempio che aiuta a riflettere, con buona pace del compagno Aleksej Stachanov, quanto una retribuzione legata agli obiettivi dovrebbe essere capace di valutare anche la qualità complessiva del risultato raggiunto.

Non è possibile, dunque, immaginare di destrutturare l’organizzazione del tempo senza provocare effetti profondi nella vita delle persone, ma dobbiamo anche accettare l’dea che questa trasformazione è già in atto da tempo. Nella dimensione digitale siamo sempre connessi, le relazioni non conoscono limiti e non sono soggette a barriere temporali, possiamo però diventarne via via più consapevoli ampliando le nostre possibilità di scelta.

La Velocità

Se la perdita dei tradizionali riferimenti di spazio e tempo genera disorientamento, il continuo aumento della velocità dei processi informativi nei quali siamo immersi produce stress e senso di inadeguatezza. La capacità di processare enormi quantità di dati in tempi velocissimi ha reso le macchine capaci di sostituire le persone in attività sempre più complesse, il confronto con la macchina è impossibile su questo terreno, la strategia per poter contrastare il senso di inadeguatezza deve fare appello alle qualità distintive dell’intelligenza umana, l’ispirazione può arrivare, ancora una volta, da lontano.

Nello stesso anno, il 1936, in cui Charlie Chaplin girava Tempi moderni, Hans Selye, un giovane medico austriaco, conduceva alcuni esperimenti nel suo laboratorio di Montreal, durante i quali doveva iniettare nei topi liquidi di natura diversa. Le osservazioni relative alle reazioni fisiologiche degli animali lo portarono, in maniera del tutto indipendente dagli scopi originari della ricerca, a elaborare una teoria denominata “Sindrome generale da adattamento”. Quando decise di definire, sinteticamente, l’insieme di questi fenomeni con un termine fino ad allora utilizzato nello studio dei metalli, “stress”, non avrebbe mai potuto immaginare di aver coniato un concetto che nel giro di pochi anni sarebbe diventato, anche questo, l’emblema di un’epoca. Ed è proprio la nozione di stress, e in particolare quanto abbiamo appreso su come affrontarlo, che può fornirci un valido aiuto per gestire strategicamente l’impatto che i grandi cambiamenti del lavoro digitale rischiano di generare sul benessere delle persone. Non esiste, infatti, un criterio oggettivo per valutare il potenziale “stressante” di un certo stimolo ambientale. Selye stesso affermava: “Lo stress non dipende tanto da ciò che facciamo o da ciò che accade, quanto dal modo in cui lo interpretiamo”.

Diventa determinante allora il nostro sguardo, il significato che riusciamo ad attribuire a una realtà che muta di fronte ai nostri occhi. Come nella Macondo di Gabriel García Márquez, in Cent’anni di solitudine, siamo immersi in un mondo “così recente, che molte cose sono prive di nome, e per citarle bisogna indicarle con il dito”. E’ dovere morale e insieme, straordinaria opportunità, per tutti gli attori coinvolti in questa trasformazione, trovare le parole per identificare e comprendere a fondo questa nuova antropologia del lavoro, così da superare spaesamento e senso di inadeguatezza e “ritornare al governo della nostra nave”. Perché come afferma il filosofo Luciano Floridi: “Il   capitale semantico è ciò che usiamo per dare significato e senso alla realtà che ci circonda. Il capitale semantico è specifico dell’uomo. Non è terreno dell’intelligenza artificiale. Semantizzare il mondo vuol dire dunque dare significato e senso alle cose che ci circondano”.

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Il rapporto uomo-macchina nel futuro del lavoro

Massimo Berlingozzi – Intervista Dibattito pubblicata su MIT Sloan Management Review Italia – estate 2022

Quali rischi corriamo se assumiamo il modo di apprendere delle macchine digitali (machine learning) come modello per l’apprendimento umano?

Non credo sia una buona idea ispirarsi ai modelli di apprendimento delle macchine digitali, la macchina non è consapevole del suo operato, individua correlazioni statistiche all’interno di giganteschi set di dati attingendo alla sua enorme potenza di calcolo. L’esito è straordinario quando l’obiettivo è un compito limitato e specifico, ma questa capacità decade appena si allarga il campo aggiungendo o spostando qualche elemento, con esiti a volte comici reperibili in letteratura. La nostra capacità di trasferire conoscenze pregresse, per utilizzarle in nuovi contesti, è invece una delle qualità peculiari della nostra intelligenza: flessibilità, intuizione, creatività, capacità di adattamento, sono risorse che hanno caratterizzato il nostro percorso evolutivo. E poi, i nostri processi conoscitivi non riguardano solo la risoluzione di problemi, spesso siamo spinti da motivazioni diverse. Quando Edward De Bono afferma: “il pensiero verticale si mette in moto solamente se esiste una direzione in cui muoversi, il pensiero laterale si mette in moto allo scopo di generare una direzione”, credo riassuma molto bene il desiderio di senso e di libertà che anima il nostro pensiero. Vogliamo davvero perdere tutto questo?

Quali sono le skill più importanti per restare umani nei tempi in cui ci viene proposto di specchiarci nei nostri ‘gemelli digitali’?

Prima cosa, non dare per scontati quegli aspetti distintivi dell’intelligenza umana a cui abbiamo accennato, perché quelle doti sono il portato del percorso evolutivo che ha preceduto l’era della rivoluzione digitale. La vita “onlife” è storia recente, è da una quindicina d’anni che non è più necessario sedersi davanti a un computer e ascoltare il “gracidare” del modem per essere connessi. Tra qualche anno probabilmente capiremo di più e meglio, ma l’impatto che questa trasformazione sta producendo sulle nostre vite è già molto evidente. Per questa ragione credo che il pensiero critico sia la risorsa più importante da preservare come “antidoto” verso sistemi sempre più potenti e pervasivi pronti ad anticipare i nostri pensieri e le nostre scelte. C’è molto marketing attorno alle innovazioni del mondo digitale, ai progressi dell’intelligenza artificiale, alla nuova frontiera del metaverso. Per troppo tempo è prevalso un atteggiamento ingenuo di fronte al potente storytelling alimentato dai giganti del settore. È ora di tornare “adulti”.

La scuola può avere un ruolo importante in questo senso?

Credo proprio di si, ma ripeto: dobbiamo abbandonare il “paese dei balocchi”. È di pochi giorni fa un eccellente esempio in questo senso: Il grande rilievo mediatico dato alla prima tesi di laurea al mondo “discussa nel metaverso” da uno studente dell’Università di Torino. Scorrendo le notizie in rete e quelle sui principali quotidiani, non compariva nessuna riflessione critica: tutti inconsapevolmente impegnati a vendere qualcosa che ancora non esiste. Questo atteggiamento non è più sostenibile e rischia di farci trovare completamente impreparati di fronte a temi di grande complessità che riguardano il nostro futuro. La scuola può fare davvero molto, basterebbe riprendere il consiglio di un grande visionario e studioso dell’evoluzione tecnologica dei media, Marshall McLuhan, che affermava, quando ancora il Web non c’era: “la scuola dovrebbe insegnare l’epistemologia dei mezzi di comunicazione.”

Qual è l’idea più importante che dovrebbe guidare un mondo del lavoro che si avvia a intensificare sempre di più il rapporto uomo-macchina?

Il mondo del lavoro si trova in una fase di radicale cambiamento. Nessuno sa esattamente cosa accadrà nel prossimo futuro, ma sono certo che chi tra molti anni studierà questo periodo, lo descriverà come un passaggio epocale. La discontinuità generata dai due anni di emergenza sanitaria, peraltro ancora non finita, ha fatto saltare una quantità di meccanismi che avevamo ingenuamente immaginato come stabili e consolidati. Si è rotto un equilibrio, non solo quello delle grandi catene logistiche e delle materie prime, qualcosa è accaduto anche dentro alle persone. Non si tratta più di impressioni, numerose indagini hanno messo in luce il forte desiderio di cambiamento che ha portato molte persone a fare scelte, a volte radicali, riguardo al lavoro, pur di ritrovare una condizione di maggior benessere nella loro vita. Molti segnali, soprattutto quelli che riguardano i giovani, indicano il desiderio di una diversa etica del lavoro, nella quale la ricerca di senso sembra giocare un ruolo determinante. E io credo che proprio quest’ultimo dato sia da monitorare con la massima attenzione per quanto riguarda il rapporto uomo-macchina.

Può approfondire questo aspetto?

È già accaduto, all’inizio della rivoluzione industriale, che qualcuno si sentisse minacciato dall’avvento delle macchine, con i luddisti che distruggevano i telai a vapore. Oggi nessuno si lamenta quando una macchina ci libera dalla fatica fisica, ma le macchine di oggi sembrano capaci di sfidare la nostra l’intelligenza. Molte posizioni di lavoro, anche complesse, vedono già oggi le macchine operare in modo straordinariamente più efficace e questa tendenza non potrà che aumentare. Diviene a questo punto fondamentale saper riconoscere con chiarezza gli aspetti distintivi e unici dell’intelligenza umana, e questo non avverrà mai specchiandoci nel nostro “gemello digitale”. Se poi l’asticella del confronto, per quanto riguarda il lavoro, viene posizionata su velocità, quantità di lavoro, eliminazione degli errori, mente calcolante, non potremo che generare frustrazione e, inevitabilmente, stroncare sul nascere qualsiasi ricerca di senso. L’inseguimento delle macchine sul loro terreno è destinato a intorpidire il pensiero e a inaridire le nostre relazioni. Dobbiamo ribadire con forza che il pensiero cosciente è solamente umano, che non esiste una intelligenza artificiale capace di comprendere il linguaggio, lo imita, lo riproduce, ma simulare e pensare sono processi del tutto diversi. E, a partire da questa consapevolezza, liberare la nostra immaginazione per costruire spazi, idee e conoscenze su cui fondare un futuro del lavoro basato sul pieno riconoscimento delle qualità umane.

Il segreto del Feedforward

Massimo Berlingozzi – Pubblicato su Harvard Business Review – Mondo Formazione settembre 2022

Il marketing delle parole è una pratica sempre in voga nel mondo della consulenza manageriale, nulla di male sia chiaro, le parole sono meravigliosi strumenti, flessibili e potenti, possono assolvere ai compiti più semplici della nostra vita quotidiana, così come aprire le menti a scenari ancora non immaginati. Conoscerle bene è importante, perché hanno sempre una storia, e quella della parola feedforward è rivelatrice di concetti particolarmente significativi per chi si occupa di formazione nell’ambito dei processi di comunicazione.

Presentato spesso come nuovo approccio per le strategie di coaching, il feedforward viene quasi sempre contrapposto alla più nota pratica del feedback, perché quest’ultima si rivolge al passato, che non può essere cambiato, mentre il feedforward guarda al futuro, su cui si può sempre agire, facilitando quindi il processo di cambiamento. Questa tecnica, introdotta nella pratica del coaching da Marshall Goldsmith, si concentra su azioni future, identificate come soluzioni per un miglioramento, evitando riferimenti a episodi passati o a comportamenti disfunzionali come spesso accade nel caso dei feedback. Attingere alle risorse della persona, rispettarne i valori, superare il concetto di errore e il giudizio che ne consegue, sono dunque i tratti distintivi di una pratica che in virtù di queste caratteristiche può essere inserita nell’ambito della psicologia positiva.

Ma tutto questo è solo una parte, il concetto di feedforward ci può raccontare molto di più.  Per poterlo fare, tuttavia, è necessario fare un breve richiamo a cosa ha rappresentato il concetto di feedback nella teoria della comunicazione. Pare sia stato il fisico scozzese James Maxwell (1868) a utilizzare per primo il concetto di feedback, per spiegare come alcuni sistemi automatici fossero in grado di autocorreggersi attraverso il ritorno dell’informazione. Idea poi ripresa e sviluppata da un gruppo di studiosi che insieme a Norbert Wiener proposero, nel 1948, la nascita di una nuova disciplina, la cibernetica, definita: “la scienza della comunicazione e del controllo”. Immaginando di poter descrivere lo stato iniziale di un sistema, il feedback si configura quindi come l’effetto che retroagisce sulla causa con una funzione autocorrettiva per il sistema, ed esattamente in questi termini viene assimilato dagli studi sulla pragmatica della comunicazione di Paul Watzlawick e colleghi a Palo Alto sul finire degli anni ‘60

È evidente quindi, dal momento che nell’interazione comunicativa umana è impossibile stabilire il momento iniziale, e che i comunicanti producono e ricevono feedback (in larga parte inconsapevoli relativamente alla componente analogica-non verbale), quanto poco senso abbia la ricerca di cosa viene prima o dopo. Causa ed effetto sono definizioni coerenti solo all’interno di un modello lineare. Il concetto di feedback rivoluziona in questo senso la teoria della comunicazione, introducendo una visione sistemica nella quale sono centrali i concetti di circolarità, retroazione e interdipendenza. È importante allora essere consapevoli che quando usiamo la parola feedback, in un linguaggio diventato ormai comune, siamo molto lontani dall’essenza originaria di questo concetto e ancora in parte vittime di una visione statica e lineare del processo comunicativo. In questo modo si spiegano anche molti dei difetti che la tecnica del feedforward si propone di superare.

Ma quanto detto finora era solo il pezzo di storia necessario per andare all’origine del concetto di feedforward. Dobbiamo infatti ritornare agli inizi degli anni ‘50 e a quelle Macy Conferences che diedero vita alla nuova disciplina della cibernetica, perché, come documenta l’Oxford English Dictionary, durante l’ottava edizione di quegli incontri, nel 1951, I. A. Richards, un critico letterario che insegnava a Cambridge, di fronte a personaggi del calibro di Norbert Wiener, Warren McCulloch, Claude Shannon, Gregory Bateson, conia il termine feedforward, definendolo come il “concetto di anticipare l’effetto delle proprie parole agendo come nostro critico”. Richards, attraverso questa sua definizione, preannuncia idee che verranno riprese negli studi sulla pragmatica della comunicazione, facendo comprendere l’importanza degli elementi di contesto per la comprensione del significato. In alcuni suoi lavori successivi ha spesso ribadito l’importanza del feedforward nella comunicazione, affermando che chi non ne fa uso verrà percepito come persona dogmatica.

È curioso notare, infine, come un concetto nato dall’intuizione di un critico letterario sia stato capace di un’influenza così ampia: nella cibernetica, nella comprensione del funzionamento dei sistemi complessi, e sugli studi del sociologo Marshall McLuhan (suo allievo a Cambridge) dedicati agli effetti dei mass media nelle dinamiche sociali. In sintesi, riguardo ai processi di comunicazione, credo sia importante comprendere quanto i concetti di feedback e feedforward, che apparentemente si muovono in direzione opposte, rappresentino in realtà due facce di una stessa medaglia nella prospettiva sistemica. Possiamo infatti concepire, all’interno di uno scenario evoluto di comunicazione, un utilizzo consapevole di questi due strumenti, dove il feedback si configura come una modalità reattiva (prevalentemente spontanea relativamente alla componente non verbale) mentre il feedforward come una modalità proattiva; un intervento quindi intenzionalmente metacomunicativo – perché capace di parlare esplicitamente sul contesto e sulla relazione – basato sulla previsione di quali saranno gli effetti di quanto sta accadendo.

L’approccio sistemico alla comunicazione fa emergere dunque uno scenario certamente più complesso e dinamico, all’interno del quale i concetti di passato e futuro, rigidamente intesi, perdono di significato. Feedback e feedforward, in questa luce, possono essere visti come un sistema flessibile e interdipendente, assimilabile a un continuum di “domande” e “risposte”, dove a volte prevale la verifica di quanto sta accadendo, altre volte la proiezione verso un futuro immaginato, capace di retroagire definendo il presente.

p.s. “Il segreto del Feedforward” è il titolo di un articolo del 1968 di I.A. Richards, scritto per la rubrica “What I Have Learned” del Saturday Review

Formazione: barometro leadership

Massimo Berlingozzi – Pubblicato su Harvard Business Review – Mondo Formazione giugno 2022

La quantità di definizioni relative alla leadership, Joseph Rost ne cita 221(1991), non ha probabilmente eguali nella letteratura del settore. Un tale proliferare di definizioni ha sicuramente più di una spiegazione: la mutevolezza intrinseca di un concetto profondamente legato all’evoluzione sociale, ai modelli educativi di riferimento e, di conseguenza, ai significati diversi attribuiti all’idea stessa di autorevolezza. Il limite dovuto ai tentativi di oggettivare una funzione che si genera in un processo di relazione, per sua natura quindi inevitabilmente intersoggettivo, infine il rischio di cristallizzare questa capacità nella descrizione delle caratteristiche ideali di una persona particolarmente carismatica.

Tornando quindi agli innumerevoli tentativi di dare una spiegazione esaustiva, verrebbe voglia di affermare, parafrasando le parole di Lao Tzu sul Tao: “la leadership che può essere definita non è la vera leadership”. Eppure, il tentativo di attribuire, attraverso un nuovo concetto, la caratteristica vincente della “leadership del momento” si riaffaccia sempre, in particolare nei periodi di crisi, quando grandi cambiamenti si profilano all’orizzonte. I due anni di crisi pandemica hanno generato la figura del “leader gentile”: un leader empatico, capace di ascolto e di manifestare emozioni con i propri collaboratori, con l’obiettivo di creare un maggiore coinvolgimento.

Non vi è nulla di sbagliato, sia chiaro, nel richiamarsi a queste qualità, che in fondo non fanno altro che ricordare l’importanza, evidenziata ormai da diversi anni, della competenza relazionale. L’unico dubbio riguarda l’approccio un po’ superficiale che a volte traspare nei numerosi articoli comparsi sull’argomento. Probabilmente questo atteggiamento riguarda, in particolar modo, la stampa non specializzata, ma certe descrizioni risuonano un po’ come le indicazioni che gli stilisti di moda, di anno in anno, impartivano a chi voleva essere sempre in linea con la tendenza del momento. Se la gentilezza non è mai stata un tratto distintivo delle nostre organizzazioni, non possiamo sperare che da domani ogni manager si “rivesta” di un’impeccabile gentilezza così come si fa, appunto, con un nuovo abito. E la speranza non è una strategia. Ma c’è un pericolo maggiore, il rischio di assumere, per quanto mossi da buone intenzioni, un atteggiamento “seduttivo”, nel tentativo di ritornare attrattivi di fronte a una schiera sempre più ampia di lavoratori che mostrano disagi e insofferenza nei confronti del modello tradizionale di organizzazione del lavoro.

Se il problema riguarda il cambio dei valori che le persone attribuiscono al lavoro, la comparsa di nuovi bisogni e l’affermarsi di differenti stili di vita, la ricerca di risposte adeguate dev’essere un processo più articolato e profondo, teso in prima istanza a comprendere quali siano le ragioni alla base di scelte di vita (ad esempio il fenomeno delle grandi dimissioni) apparentemente incomprensibili alla luce dei vecchi valori. Per questa ragione l’infinito e sterile dibattito, su chi sia o no un leader, esploso di recente dopo il perentorio appello di Elon Musk ai suoi dipendenti di tornare in ufficio, appare quantomai sottodimensionato di fronte alle reali esigenze di risposte efficaci.

Quello a cui stiamo assistendo è l’affermarsi di una nuova etica del lavoro, forse è ancora presto per trarre delle conclusioni, ma quando le persone, toccate nelle loro vite, appaiono disposte a scelte radicali nella ricerca di una prospettiva migliore, ci sono i presupposti per prendere l’intera questione molto seriamente. Il tema della leadership assume a questo punto una dimensione diversa. Ogni persona chiamata a ricoprire un ruolo di responsabilità dev’essere capace di attrezzarsi, almeno a livello di pensiero, per rispondere a queste nuove esigenze. La leadership non è il dono “dell’unto del signore” di turno, non è un abito diverso da indossare secondo l’esigenza del momento, è un principio di autorevolezza a cui si dovrebbe ispirare chiunque si trovi a ricoprire un ruolo di responsabilità, e ognuno di noi è diverso per cui l’obiettivo è comune ma le soluzioni adottate possono e devono essere diverse. Così come sarebbe auspicabile pensare a una leadership diffusa tra le persone che danno vita a un’organizzazione, forse l’unica modalità per rendere sostenibile una risorsa che ha spesso danneggiato le relazioni e consumato le persone, con lo stesso sguardo che cominciamo ad applicare alle risorse ambientali. Distinzione che riguarda solo le parole che convenzionalmente usiamo, perché persone, relazioni e cose appartengono al medesimo ambiente in cui tutti viviamo.   

Comunicazione e consapevolezza nell’era del lavoro digitale

Massimo Berlingozzi – Pubblicato su Harvard Business Review – Mondo Formazione – marzo 2022

Non è facile riassumere nello spazio di questo articolo il tema, importante, che andiamo ad affrontare, ci serviremo dunque di un esempio. Immaginate di osservare due persone che stanno parlando tra di loro dietro un vetro. Il vetro è spesso e voi siete abbastanza distanti, non potete quindi udire le loro parole e non potete nemmeno, per via della distanza e di una capacità che a tutti non è data, “leggere” il loro labiale, differentemente da HAL 9000 nella famosa scena di 2001 Odissea nello spazio. Per essere ancora più chiari: non siete in grado di comprendere il testo del loro dialogo. Nello stesso tempo, tuttavia, siete perfettamente capaci di cogliere il “tessuto emotivo” della loro conversazione. Non vi sfuggirà la modalità amichevole, oppure tesa e conflittuale del loro confronto e potreste anche spingervi oltre nel cogliere ulteriori sfumature: sorrisi, toni compiacenti, espressioni di imbarazzo, ecc.

Immediatamente dopo, immaginate di chiamare al telefono un collega e di dover descrivere minuziosamente tutte le vostre percezioni. Scoprireste che ci vorrebbero moltissime parole per descrivere pochi attimi di conversazione e che quello che state facendo non è per niente facile, anche perché non sempre siete riusciti a trovare le parole capaci di restituire alcune delle sensazioni che avete provato. Vi trovate nella difficoltà, di cui quasi sempre siamo inconsapevoli, di dover tradurre dall’analogico al digitale o, più semplicemente, di dover rendere esplicito ciò che ci era parso così chiaro a livello implicito. Normalmente non ci pensiamo, perché quando ci relazioniamo “in presenza” gli elementi digitali (le parole) e analogici (la comunicazione non verbale) della nostra comunicazione fluiscono liberamente, in modo simultaneo, trasmettendoci il significato delle parole e come quelle parole devono essere intese. È chiaro a tutti che il livello digitale è legato a una convenzione e a regole che devono essere rispettate (es. la lingua italiana), mentre la parte analogica è slegata da una precisa convenzione e quindi compresa in maniera intuitiva, soggetta fra l’altro a varianti di tipo culturale e individuale.

Quando parliamo non scambiamo mai solo informazioni, nel medesimo tempo definiamo una relazione, ancor meglio: costruiamo una relazione. Tutto ciò accade quasi sempre in modo abbastanza inconsapevole, ma a uno sguardo più attento non dovrebbe sfuggire l’idea che la natura delle relazioni nelle quali siamo coinvolti viene letteralmente “negoziata”, anche se questo avviene prevalentemente attraverso elementi analogici della comunicazione. Non accade mai di affermare esplicitamente: “ecco come vorrei che fosse la nostra relazione”. Esempio: “mi ha fatto piacere conoscerti, lavoriamo nello stesso ufficio, quando vuoi possiamo andare a prendere un caffè insieme, ma non chiedermi di venire a cena a casa tua, o di andare al cinema questa sera perché non lo farei volentieri”, oppure: “ok la cena e il cinema, però le vacanze le faccio per conto mio!”. Possono far sorridere questi esempi, eppure rappresentano esattamente ciò che facciamo, solo che questi passaggi non avvengono mediante l’uso delle parole, vengono invece “agiti” attraverso reciproci comportamenti con i quali siamo perfettamente capaci di far comprendere le nostre reali intenzioni. Inutile fare degli esempi, ognuno di noi dispone di un ampio campionario.

Ed eccoci arrivati al punto essenziale: in alcune particolari situazioni, e sempre di più oggi nella comunicazione mediata attraverso strumenti digitali, la natura delle relazioni in cui siamo coinvolti dev’essere “negoziata” esplicitamente, affinché la comunicazione risulti efficace.  Paul Watzlawick, nei suoi studi sulla pragmatica della comunicazione, attribuiva a questa capacità, definita metacomunicazione, un valore molto alto in termini di consapevolezza. Metacomunicare (parlare esplicitamente sulla relazione) significa utilizzare le parole con il preciso intento di contribuire a costruire la miglior sintonia relazionale possibile. Non è affatto facile, perché abbiamo quasi sempre una scarsa consapevolezza di ciò che nella relazione si genera in modo spontaneo e perché farlo significa esporsi, mettersi in gioco, non temere il possibile coinvolgimento emotivo.

La dimensione digitale del lavoro sottrae inevitabilmente spazio alla parte più antica e istintiva della nostra comunicazione, ma la funzione di questa componente è troppo importante per essere abbandonata, poiché intimamente legata alla qualità delle relazioni e al benessere delle persone. E pensando a questo, non senza una certa malizia, verrebbe da chiedersi: quanto hanno concorso all’acquisizione di un ruolo manageriale le reali conoscenze e competenze e quanto invece una dimensione più sotterranea, istintiva e inconsapevole della leadership, che proprio delle relazioni all’interno di uno spazio fisico si alimentava? E cosa accade quando, smart working o lavoro a distanza che sia, si deve essere capaci di gestire e motivare collaboratori non più in presenza per larga parte del loro tempo?  Nuove competenze e una nuova consapevolezza diventano dunque necessarie. Le idee non mancano, le aule di formazione sono il luogo dove questo dovrà accadere.

Il femore rotto della nostra civiltà

Massimo Berlingozzi. – 9 gennaio 2022

Molti anni fa, durante una lezione universitaria, alcuni studenti chiesero a Margaret Mead qual era, secondo lei, il primo segno individuabile come l’inizio della nostra civiltà, della nostra cultura. La risposta, poco prevedibile della Mead, non indicò un graffito o un utensile, ma un femore. Un femore prima rotto e poi guarito. Nel mondo animale, spiegò, un incidente di questo tipo significa morte certa per la perdita dell’essenziale autonomia. Qualcuno invece aveva accudito quella persona, l’aveva aiutata attendendo la sua guarigione. L’argomentazione di Margaret Mead, prima ancora di chiedersi quanto esatta sia quella risposta, lancia un messaggio molto chiaro riguardo all’originaria natura solidale del patto sociale e al senso di comunità come elemento fondante della nostra civiltà.

Cosa è accaduto in questi ultimi due anni per smarrire tutto questo? Davvero, la ricerca di astratte libertà, rinchiusi in estemporanei recinti identitari, può averci fatto dimenticare qualcosa di così essenziale? Forse abbiamo tutti bisogno, come in una delle fiabe più belle di sempre, di un giovane fanciullo che ci indichi che il Re è nudo! Perché ognuno di noi, quando beneficia di costosissimi servizi sanitari, usufruisce della scuola pubblica, o semplicemente può risarcire i danni di un grave incidente attraverso il pagamento di un premio annuale all’assicurazione, gode dei vantaggi legati alle molte forme di applicazione di quel patto!

Chi ha deciso di rallentare, di fermarsi, di limitare la propria libertà, anche rischiando, per aiutare un’altra persona a riparare quel femore ferito; accetta, in nome di un bene superiore, quel disagio così ben descritto da Freud nel suo Il disagio della civiltà, che ci ha portati a scegliere di scambiare quote di libertà in favore di quote di reciproca sicurezza. Concepirsi al di fuori di quell’inevitabile vincolo d’interdipendenza, temo sia una pericolosa illusione.

Restare umani conviene: perché la nostra intelligenza è (ancora) superiore a quella delle macchine

Massimo Berlingozzi – pubblicato su Persone e Conoscenze (ESTE) dicembre 2021

Ci vuole qualcosa di più che l’intelligenza per agire in modo intelligente

(Fëdor Dostoevskij)

Il tentativo di dare una definizione unica e omnicomprensiva del concetto di intelligenza, di questa importantissima qualità umana, non ha mai avuto successo. Ci troviamo infatti di fronte a qualcosa di enormemente complesso e in larga parte ancora non compreso. Una sorta di gigantesco mosaico, il cui significato tuttavia sfuggirebbe al “Demone di Laplace”, perché mai riconducibile alla somma delle caratteristiche delle singole tessere. Eppure, tentativi se ne sono fatti, eccome. Dall’antica distinzione dei filosofi greci tra intelletto e ragione, sopravvissuta, con formulazioni diverse, fino alle opere dei grandi filosofi del diciottesimo secolo, per arrivare alla definizione di “Intelligenze multiple” di Howard Gardner (1983), che spazia dall’intelligenza logico matematica a quella linguistica, musicale spaziale e interpersonale.

Più semplicemente molti di noi metterebbero in relazione l’idea di intelligenza con il famoso Q.I. (Quoziente di Intelligenza), nozione che, a partire dai lavori dello psicologo francese Alfred Binet nei primi anni del ‘900, ebbe infatti grande successo, dando vita a numerosi strumenti per la sua valutazione. Ancor oggi i test per la valutazione del Q.I., orientati a sondare prevalentemente capacità cognitive di memoria e di ragionamento, sono ampiamente presenti nei test di ammissione a molte facoltà universitarie.

Per molto tempo, dunque, l’idea di intelligenza come sinonimo di pensiero razionale, ha avuto un ruolo dominante nella nostra cultura, creando un filtro valutativo che ha condizionato profondamente le scelte in molti campi a partire dall’educazione e quindi dalla scuola. L’idea di una “intelligenza sociale” comincia a farsi strada intorno agli anni ’40, e poi, in modo più ampio, con i primi lavori di Gardner negli anni ’70, ma è solo in un articolo pubblicato nel 1990 che Salovey e Mayer danno una prima definizione di Intelligenza Emotiva: “La capacità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e altrui, distinguerle tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”.  

Con gli anni ’90 si conclude quindi il lungo e faticoso percorso che ha portato a riconoscere le emozioni come una componente essenziale della nostra intelligenza. L’interesse per le emozioni, precedentemente, a partire dall’opera di Charles Darwin, era prevalentemente legato agli studi nel campo della biologia e in seguito affrontato da psicologi particolarmente attenti a comprendere l’aspetto biologico delle emozioni, importanti in questo senso i lavori di Silvan Tomkins (1962) e poi quelli di Paul Ekman e Wallace V. Friesen (1969). Il merito degli studi sull’intelligenza emotiva, approdati poi al grande pubblico attraverso la vasta opera divulgativa di Daniel Goleman, è aver fatto comprendere il ruolo fondamentale che le emozioni svolgono in situazioni per molto tempo immaginate come esclusivo dominio del pensiero logico razionale. Il premio Nobel 2002 per l’economia, assegnato a Daniel Kahneman, è la più importante conferma in questa direzione. Gli studi di Kahneman dimostrano infatti come le decisioni umane, in campo economico (ma non solo), divergano sistematicamente dalla presunta razionalità a lungo sostenuta dalle teorie economiche classiche.

La sintesi di quanto detto finora, anche in assenza di una definizione capace di soddisfare chiunque, ci pone dunque di fronte a una visione ampia e articolata dell’intelligenza umana, che include, oltre al dominio della mente ragionante, anche ciò che della nostra intelligenza è legato alle emozioni e ai sentimenti. Una base importante per avviare un confronto con il concetto di Intelligenza Artificiale. (AI).

Ciò che è intelligente non è mai artificiale

Molti individuano in Alan Turing, famoso per la decrittazione della macchina “Enigma” con cui la Germania nazista cifrava i suoi messaggi, il padre dell’Intelligenza Artificiale. Alcuni suoi lavori, come quello in cui sviluppa l’idea del test che porta il suo nome, sono considerati come i primi importanti contributi di questa disciplina. Ma solo nel 1955 John McCarthy conierà la definizione di Intelligenza Artificiale (A.I.), formulando insieme a Marvin Minsky e Claude Shannon, la cosiddetta “proposta di Dartmouth”, in cui vengono definiti i temi principali della ricerca in questo campo: le reti neurali, la teoria della computabilità, la creatività e l’elaborazione e il riconoscimento del linguaggio naturale.

La domanda se l’Intelligenza Artificiale è, o sarà, in grado di replicare o addirittura superare l’intelligenza umana, è una questione molto aperta e dibattuta, animata da voci autorevoli spesso fortemente discordanti. Lungi dall’idea di poter trarre delle conclusioni definitive, è importante tuttavia fornire un necessario chiarimento: molto del materiale informativo reperibile su questo argomento, è fortemente condizionato dagli enormi interessi economici legati agli sviluppi tecnologici in questo settore. Nell’ambito di una disciplina a cavallo tra futuro e fantascienza, dal sapore inevitabilmente affascinante, diventa dunque fondamentale saper distinguere le conoscenze realmente acquisite dal linguaggio del marketing.

Nel 2015 ha avuto molto risalto un appello firmato dal filosofo Nick Bostrom, autore del libro Superintelligenza, a cui ha aderito anche il celebre astrofisico Stephen Hawking, sulle minacce legate a uno sviluppo incontrollato dell’A.I. C’è chi ha giudicato come eccessive queste preoccupazioni, ma è innegabile che queste valutazioni producano forti suggestioni in una opinione pubblica impressionata dagli straordinari risultati ottenuti da presunte “macchine pensanti”. Negli ultimi anni i sistemi di machine learning e hanno permesso ad Alpha Go, l’Intelligenza Artificiale di Google DeepMind, di battere in più partite i migliori giocatori al mondo di Go, l’antico gioco cinese considerato più complesso degli scacchi, spingendosi quindi ben oltre il risultato conseguito da Deep Blue di IBM nella leggendaria partita del 1997 contro Garry Kasparov. Ancor più meraviglia hanno destato il computer AIVA, presentato a Vancouver da Pierre Barreau, che compone musica ispirandosi a Beethoven e, nel campo della pittura, il progetto “The Next Rembrandt”, entrambi capaci di realizzazioni in grado di confondere gli esperti. Infine, nell’ambito della scrittura, il nuovo generatore di linguaggio GPT-3 che, sfruttando processi di deep learning, è capace di completare un articolo di giornale senza permettere al lettore di riuscire a distinguere il prodotto dell’A.I. con l’intero testo originale. 

Sono risultati di questo tipo che fanno dire ad alcuni esperti del settore che il momento in cui sarà possibile replicare l’intelligenza umana è ormai molto vicino. Demis Hassabis, del Deep Mind di Google, è convinto che questo traguardo potrà essere raggiunto in qualche decina d’anni, altri, come Rodney Brooks direttore fino al 2007 del Laboratorio di A.I. del MIT di Boston, sono infinitamente più cauti e pensano che ci vorranno centinaia d’anni.

Ma la stima sull’asse del tempo rischia di essere una lettura molto parziale per chi riflette su questo tema in modo molto più radicale. Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione a Oxford, afferma che non ha senso parlare di intelligenza, poiché “tutto ciò che è veramente intelligente non è mai artificiale e tutto ciò che è artificiale non è mai intelligente”. Tutti, peraltro, sono concordi nell’affermare che i risultati straordinari a cui abbiamo accennato, non siano classificabili come “Artificial General Intelligence” (AGI), un’AI capace di replicare completamente l’intelligenza umana, ma solamente come “Narrow Artificial Intelligence”, “Intelligenza artificiale debole”, che si pone come obiettivo la realizzazione di un sistema capace di agire con successo in una specifica attività complessa come, per esempio, il riconoscimento di immagini. È proprio di questo che parla Floridi, quando invita a riflettere sullo “scollamento” che si è creato tra la “capacità di agire con successo nel mondo” e la necessità di essere intelligenti. Se infatti, per un attimo, ci distacchiamo dallo straordinario risultato raggiunto, e ci chiediamo come l’A.I. ha agito per ottenerlo, scopriamo che questo risultato è stato ottenuto operando, unicamente, attraverso un enorme capacità di elaborazione di dati

Perché solo noi: il discrimine del linguaggio

Ogni vera ricerca genera inevitabili sorprese, esiste infatti un’abilità, apparentemente più semplice di quelle finora descritte, dal momento che per ognuno di noi è molto naturale, che si è rivelata invece come uno scoglio enormemente difficile da superare per una macchina, e che forse, proprio per questa ragione, può essere considerata come una delle porte d’accesso per comprendere l’unicità dell’intelligenza umana: la comprensione del linguaggio naturale (uno degli aspetti di ricerca indicati dalla “Proposta di Dartmouth” 1955).

Perché solo noi è il titolo di un saggio del 2016 di Noam Chomsky e Robert Berwick, in cui il padre della teoria della grammatica universale innata, insieme a Berwick, un linguista computazionale, spiegano l’evoluzione del linguaggio e l’origine della sintassi come qualità esclusivamente umana, non presente in altre specie animali e irriproducibile da parte di apparati artificiali. I problemi, per ora irrisolvibili, che i programmi di A.I. incontrano nella comprensione del linguaggio naturale, inclusi i sistemi più avanzati (NLP Natural Language Processing) in questo settore, come il già citato GTP-3, confermano questa ineliminabile distanza. L’enorme difficoltà che dimostrano nella comprensione di semplici elementi legati al senso comune: contestualizzare i significati, generalizzare e astrarre concetti, comunicare per analogie e metafore, comprendere doppi sensi, allusioni, ironia, ecc., aiutano a definire meglio alcune caratteristiche peculiari del linguaggio e dell’intelligenza umana, ancora poco indagate, e, almeno per ora, non riproducibili. E tutto questo senza scomodare la capacità di comprendere le infinite sfumature della comunicazione emotiva, che molto spesso rappresentano il vero elemento discriminante per interpretare correttamente intenzionalità e reale significato di un messaggio. Ciò che è immediatamente chiaro per un bambino di pochi anni, si rivela tremendamente difficile per la macchina.

Alcune evidenze sperimentali aiutano a chiarire meglio questi aspetti. Andrea Moro, linguista e neuroscienziato allievo di Chomsky, spiega come tutti noi apprendiamo una lingua nei primi cinque anni di vita elaborando un campione di circa venticinque milioni di parole, mentre un esperimento in corso tutt’oggi, con lavori pubblicati, dimostra che un sistema di A.I., anche se esposto a trenta miliardi di parole: “non riesce a convergere neanche a un frammento della grammatica cui converge un bambino”. L’analisi statistica, anche se supportata da enormi capacità di calcolo, non è in grado di dedurre la struttura di una lingua naturale. Risultato che non dovrebbe apparire poi così strano, se si pensa che questi sistemi usano parole disconnesse da qualsiasi esperienza e di cui non conoscono il significato. La macchina non sa che cosa sta facendo, opera in modo statistico, si limita, come afferma Judea Pearl, uno dei pionieri nell’approccio probabilistico all’A.I., ad applicare la sua gigantesca capacità di calcolo per: “trovare regolarità nascoste all’interno di un enorme set di dati”.  Affermazione che trova il consenso anche di altri esperti, convinti che si sia raggiunto un limite difficilmente superabile. Nonostante la quantità di dati, sempre crescente, che queste macchine riescono a elaborare, sistemi che operano sulla base di calcoli statistici, non riescono a compiere processi tipici dell’intelligenza umana. La sfida appare pressoché impossibile anche dal lato “hardware”, se guardiamo al cervello umano, con i suoi cento miliardi di neuroni e trilioni di sinapsi, ci rendiamo conto che nulla del genere è stato mai nemmeno lontanamente costruito. Un siffatto apparato, poi, avrebbe bisogno di un livello di efficienza energetica di un miliardo di volte superiore ai migliori computer attuali, un traguardo tecnico irrealizzabile con le attuali tecnologie. Consumerebbe in ogni caso quantità enormi di energia, il nostro cervello riesce a farlo consumando circa 20 Watt.

Abili e consapevoli gestori di macchine straordinarie

Arrivati a questo punto possiamo chiudere il cerchio. Nessuna intelligenza artificiale generale (AGI) si profila all’orizzonte, possiamo dormire sonni tranquilli. La “sfida” con l’intelligenza umana appare rimandata a un tempo lontanissimo o forse per sempre. Le macchine, per quanto capaci di risultati straordinari, possono solo simulare alcuni aspetti dell’intelligenza umana, ma simulare e comprendere sono due processi totalmente diversi, sarebbe grave non cogliere questa fondamentale distinzione: noi utilizziamo una sintassi di cui spesso non ricordiamo le regole, ma siamo consapevoli dei significati che stiamo elaborando. La macchina ha imparato ad usare un insieme di regole, ma ignora i significati che sta producendo. Affascinati dai risultati, rischiamo di dimenticare di chiederci attraverso quale processo sono stati realizzati, perdendo di vista, in questo modo, l’essenza dell’intelligenza umana: il pensiero cosciente.

Resta del tutto attuale, invece, l’impatto che l’Intelligenza Artificiale Limitata (sistemi capaci di altissima efficienza nella risoluzione di specifici problemi) potrà creare in termini di perdita di posti di lavoro. Le previsioni mostrano dati spesso contrastanti, in particolar modo riguardo alla comparsa di nuove professioni. Molte persone, tuttavia, temono questo scenario immaginando di non riuscire a adattarsi a queste trasformazioni. Certo, non possiamo trasformarci in luddisti del terzo millennio, anche perché ormai è tutto immateriale ciò che dovremmo distruggere. Il vero problema è sviluppare le competenze necessarie per poter gestire questi grandi cambiamenti e farlo con la giusta consapevolezza.

Una rinnovata consapevolezza che deve evolvere da una profonda comprensione della straordinaria unicità dell’intelligenza umana, dove s’intrecciano parole, idee, emozioni e sentimenti, dando vita a quell’immenso mosaico che, proprio perché sfugge alla nostra comprensione, non è ancora riproducibile. Il rischio di dimenticare tutto questo, e abbandonarci a una comoda e passiva dipendenza da macchine sempre più potenti e capaci, è reale. Gli etologi ci hanno insegnato che gli animali che trovano il cibo troppo facilmente, sviluppano una minore intelligenza. Per centinaia di migliaia di anni ci siamo evoluti risolvendo problemi e superando grandi difficoltà. Il mondo del lavoro e quello della scuola si trovano di fronte a una grande sfida per il futuro, si tratta solo di decidere se accettarla

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Educare alla resilienza

Massimo Berlingozzi – pubblicato su Harvard Business Review Italia dicembre 2021

La fine del lavoro è il titolo di un saggio del 1995 di Jeremy Rifkin, economista americano molto attivo nel cercare di prevedere e spiegare gli effetti dei grandi cambiamenti in atto nella società moderna. Rifkin non era il solo a prefigurare, con alcuni anni di anticipo, le imponenti trasformazioni nel mondo del lavoro legate all’introduzione delle tecnologie digitali, ma nessuno di loro avrebbe potuto mai immaginare uno scenario come quello che abbiamo conosciuto in questi ultimi due anni, attraversati dall’emergenza sanitaria. In un tempo decisamente breve, un numero enorme di lavoratori ha potuto toccare con mano una dimensione diversa del lavoro, e, per quanto la situazione attuale sia tutt’altro che stabilizzata, la sensazione che si sia compiuta una svolta dalla quale non si potrà più tornare indietro, è molto forte. Impressione che pare confermata dalle forti richieste di mantenere una parte consistente del lavoro al di fuori delle sedi tradizionali e, più recentemente, dal fenomeno delle dimissioni spontanee dal lavoro, la “great resignation”, segnalato per la prima volta negli Stati Uniti, ma che ora comincia ad assumere proporzioni significative anche nel nostro paese.

Esiste una vasta letteratura riguardo alle strategie per gestire gli scenari di crisi. La grande recessione economica del 2008, la consapevolezza sempre più diffusa dei problemi ambientali, e ora una crisi sanitaria di proporzioni globali, hanno reso questi eventi tutt’altro che teorici, molto concreti. La capacità di affrontare gli enormi problemi generati da queste situazioni dipende sicuramente dalla qualità delle decisioni e dalle iniziative messe in atto, ma un ruolo determinante è affidato alle persone che ricoprono, a vario titolo, ruoli di responsabilità. In ambito aziendale si è sviluppata una vera e propria disciplina, definita “Crisis management”, finalizzata allo studio e alla risoluzione di queste fasi estremamente delicate, e per chi si occupa di formazione è diventato molto importante riuscire a identificare le competenze capaci di fare realmente la differenza durante la gestione di questi processi.

Alcune delle più importanti qualità ruotano intorno a un’area di competenza che possiamo efficacemente sintetizzare attraverso il concetto di resilienza. A questo punto tuttavia è necessario un chiarimento, perché il recente abuso di questa parola ha generato una banalizzazione, e a volte anche un travisamento del suo significato originario. La parola resilienza compare nelle scienze sociali con un significato chiaramente metaforico, mutuato dallo studio dei materiali: un materiale viene definito resiliente quando è in grado di ritornare allo stato iniziale dopo aver subito uno shock. Una persona, o un sistema sociale, sono quindi resilienti quando riescono a sviluppare una “forza intelligente”, un processo evolutivo che consente di ricostruire un nuovo equilibrio dopo un evento traumatico.  Espressione di un comportamento che non si limita a resistere, condizione che produrrebbe un graduale ma inevitabile logoramento, ma che è capace invece di attivare un processo dinamico, alimentato da un pensiero positivo in grado di valutare la situazione critica e mostrare nello stesso tempo fiducia nella sua soluzione. La persona resiliente non si arrende di fronte alle difficoltà, la sua volontà di essere soggetto attivo non la fa mai sentire in balia degli eventi, reagisce sapendo di poter attingere dalle proprie risorse e da quelle presenti nell’ambiente. Ascolta, osserva, cerca di comprendere, mostra flessibilità e apertura al cambiamento, è pronta ad apprendere da nuove esperienze attraverso un processo sinergico capace di integrare nuove energie.

Tuttora immersi in uno scenario di crisi globale, che ha inciso profondamente nella vita delle persone, con forti ripercussioni in campo economico, politico e sanitario, è difficile non attribuire un valore positivo alle qualità che abbiamo cercato di sintetizzare. È bene quindi non lasciarsi distrarre dalle mode e da sguardi superficiali; la possibilità di “educare alla resilienza” è intimamente legata alla nostra capacità di restituire profondità e significato a questo concetto, in modo da poter individuare e mettere in atto le strategie formative più adatte per riuscire a far comprendere e sviluppare questa importante competenza: una delle risposte adattive più efficaci di fronte alla complessità della realtà che ci circonda.

Addio alle armi

Massimo Berlingozzi. – pubblicato su Harvard Business Review Italia settembre 2021

La capacità di saper gestire con efficacia ed equilibrio situazioni conflittuali è una competenza preziosa per chi ha responsabilità manageriali. La gestione di collaboratori implica da sempre la possibilità di trovarsi ad affrontare situazioni di questo tipo, ma per chi segue il mondo della formazione è importante chiedersi se la situazione attuale non richieda un’attenzione particolare a riguardo.

Il mondo sta vivendo, ormai da quasi due anni, uno scenario che verrà studiato e ricordato per moltissimo tempo. Al quadro d’incertezza generato dalla pandemia si sono aggiunti i più recenti sviluppi legati alle nuove disposizioni volte a regolare il ritorno al lavoro in presenza.  Non è questa la sede per entrare nel merito di questi problemi ma, dovendo affrontare il tema del conflitto, non è possibile fare a meno di riflettere sulle forti tensioni che si sono create in molti luoghi di lavoro e sulla radicalizzazione di posizioni poco disposte a dialogare fra loro. La capacità di gestire i conflitti è una competenza e, come tale, può essere acquisita. È un obiettivo importante per chi dovrà gestire situazioni, inevitabilmente complesse, nei prossimi mesi, e la formazione può fornire un efficace supporto in questa direzione.

Il primo passo consiste nel liberarsi di un antico retaggio, intimamente legato all’evoluzione della nostra specie, che ci porta a interpretare il conflitto come una battaglia dove o si vince o si perde. Questa visione del conflitto genera una risposta automatica del nostro organismo, descritta da Bradford Cannon ai primi del 900, definita “attacco o fuga” (fight or flight). L’energia prodotta da tale risposta svolge un ruolo fondamentale quando è in gioco la sopravvivenza, si rivela invece del tutto disfunzionale quando viene immessa nel contesto di una dinamica sociale. Lasciarsi coinvolgere in una sfida al “si vince o si perde” esclude la possibilità di una trasformazione del conflitto orientata al proseguimento della relazione, perché chiaramente sia la fuga che l’attacco, nella loro essenza, non mirano a questo risultato. La possibilità di gestire strategicamente le dinamiche conflittuali parte, dunque, da questo primo elemento di consapevolezza, che aiuta anche a superare convinzioni e stereotipi, molto radicati e prevalentemente negativi, che da sempre accompagnano il tema dei conflitti.

Un secondo importante elemento di consapevolezza, che ancor più diverge dal senso comune, consiste nell’abbandonare l’illusione di poter stabilire con certezza l’origine del conflitto, per poter dimostrare chi ha ragione e chi ha torto. Accade infatti, sia nelle piccole dispute che nelle grandi contese internazionali, che i protagonisti del conflitto non neghino la realtà della loro divergenza, salvo definirsi solamente “l’effetto”, perché la “causa”, il motivo per cui sono costretti a litigare, dipende dall’altro. Se i due contendenti si irrigidiscono su questa posizione, e non sono disposti a cambiare la loro visione del conflitto, non si potrà che assistere a un ulteriore inasprimento dello scontro. È necessario, quindi, abbandonare l’idea di potersi ricavare un vantaggio stabilendo la causa originaria del conflitto, perché all’interno di qualsiasi relazione continuativa chiunque è sempre capace di poter attingere a un “prima”, e quando questo non è possibile, come è realmente avvenuto in molte vicende umane, inventarlo.

In sintesi, ci troviamo di fronte a un deficit di consapevolezza, dovuto alla difficoltà di accettare la natura indubbiamente complessa, e per certi versi contro-intuitiva, della comunicazione. Proprio nel conflitto la comunicazione rivela in modo quanto mai esplicito la sua natura sistemica (circolare e ricorsiva), che porta a superare la visione lineare causa-effetto, per approdare a uno scenario nel quale le persone coinvolte sono unite da un vincolo imprescindibile di interdipendenza.

L’aspetto più importante per risolvere i conflitti, per trasformarli in una dimensione, magari sofferta, ma intenzionalmente costruttiva, è rappresentato quindi da una profonda consapevolezza della dinamica relazionale che li caratterizza. Affermare questo non significa certo sottovalutare l’intrinseca difficoltà del metodo. Per millenni gli esseri umani hanno risolto i loro confitti (e continuano a farlo) attraverso la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di concedere spazi agli avversari solo se sconfitti. Superare questo scenario è possibile, sviluppando un’adeguata competenza, ma soprattutto decidendo di “abbandonare le armi” per poter dialogare sostenuti da una rinnovata consapevolezza.

Covid: etica della convinzione o della responsabilità?

Massimo Berlingozzi. 17 settembre 2021

Sinceramente non ricordo una vicenda simile: una sorta di sbandamento collettivo in grado di mettere drammaticamente in crisi la capacità di confronto e dialogo tra le persone. E non parlo del tentativo di dialogo con frange di “terrapiattisti”, che per definizione si mettono al di là di ogni possibile ragionamento, ma della radicalizzazione di posizioni (ormai incapaci di dialogare tra loro) che in questi giorni hanno coinvolto persone che, a vario titolo, dovremmo considerare abili frequentatori del pensiero. Chissà se può esserci d’aiuto quel signore che passeggia nella foto qui sopra …

Max Weber* espose la caratteristica delle due etiche riportate nel titolo, durante una celebre conferenza agli studenti di Monaco di Baviera nel 1919.

L’etica della convinzione è quella di chi segue rigorosamente i propri principi, e lo fa indipendentemente dalle conseguenze che l’applicazione di questi principi produrranno, perché guidato da un’etica capace di indicargli sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato.

L’etica della responsabilità è invece quella di chi è sempre attento a valutare le conseguenze di una certa scelta, e per questa ragione è disposto a “venire a patti” con i principi assoluti: per ottenere buoni risultati (fini) è necessario, in molte circostanze, adottare mezzi e strumenti non altrettanto buoni.

Il richiamo a Machiavelli è facile, ma Weber si allontana dalla visione stereotipata, e un po’ cinica, del famoso motto il fine giustifica i mezzi, affermando che l’etica della responsabilità è l’unica etica che può caratterizzare “l’agire politico”, inteso come la capacità di operare nella complessità sociale. Un’etica relativa, che non soddisfa certo i cercatori di assoluto e di certezze. Weber è consapevole di questo problema, non lo nasconde, auspicando al tempo stesso un atteggiamento mirato a cercare di individuare sempre le “migliori scelte possibili”.

Ognuno può trarre le proprie conclusioni. Per quanto mi riguarda, vorrei solo sperare che questa riflessione possa aiutare a riaprire il dialogo, consapevoli che non ci sono scelte e soluzioni, definitive e perfette, di fronte a problemi di tale complessità.

* Max Weber è morto nel 1920 a causa della grande epidemia Spagnola