Massimo Berlingozzi – Pubblicato su Persone e Conoscenze Gruppo ESTE – novembre dicembre 2022
La storia del cinema inizia con un filmato molto noto La sortie des usines dei fratelli Lumière, proiettato in pubblico a Parigi il 28 dicembre del 1895. Si tratta di una scena molto semplice, il racconto di un normale giorno di lavoro: gli operai che escono dalle officine Lumière a Lione. Passano diversi anni, siamo nel 1936, il cinema è diventato ormai un fenomeno sociale di rilevanza mondiale quando esce Tempi moderni di Charlie Chaplin, ancora una volta è il mondo del lavoro al centro di un’opera che rappresenta magistralmente un’intera epoca. Di questo capolavoro, fortemente simbolico, è universalmente nota la scena di Charlot, incapace di adeguarsi ai tempi della macchina, risucchiato dai suoi ingranaggi. È interessante però ricordarne l’inizio. Le telecamere questa volta riprendono l’ingresso al lavoro: l’immagine è fissa su un orologio, sta per scoccare l’ora di entrata in fabbrica, sovraimpressa si legge una frase, “Tempi moderni, una storia i cui personaggi sono l’industria, l’iniziativa individuale, l’umanità che marcia alla conquista della felicità”. La scena successiva è un gregge di pecore a cui si sovrappone, immediatamente dopo, la massa dei lavoratori che esce dalla metropolitana per accedere all’interno dell’officina, dove si affollano per timbrare il cartellino. Infine, al suono della sirena, ha inizio la produzione.
Immagini apparentemente lontanissime, ma che in realtà descrivono un’antropologia del lavoro che molti di noi hanno conosciuto. Un mondo nel quale lavorare significava recarsi in un luogo preciso, uno spazio fisico che rappresentava un ambiente sociale di aggregazione capace di generare “senso di appartenenza” e “idea di comunità.” Tutto questo avveniva in un tempo definito, scandito da rituali consolidati che separavano il tempo del lavoro dal cosiddetto “tempo libero”, all’interno di uno scenario sostanzialmente stabile, che in moltissimi casi arrivava a coprire l’intero arco della vita lavorativa, influenzando profondamente gli stili di vita e il riconoscimento sociale delle persone.
Un mondo che aveva cominciato ad andare in crisi sotto la spinta della globalizzazione e con l’avvento delle nuove tecnologie. Eppure, alcuni capisaldi di quel modello resistevano, i dati disponibili ci dicevano infatti che, prima della pandemia, l’impatto della digitalizzazione sull’organizzazione del lavoro in Italia era abbastanza limitato: coinvolgeva 570 mila lavoratori. Poi è accaduto quello che sappiamo: 6-7 milioni di persone si sono trovate, nel giro di poche settimane, a lavorare “in remoto”, attraverso l’uso di strumenti digitali. Una sorta di gigantesco esperimento sociale, che nel mondo ha coinvolto decine di milioni di lavoratori, di fatto un balzo in avanti che in condizioni normali avrebbe richiesto ancora molti anni. Ci si accorge allora di essere di fronte a un cambiamento epocale, che richiederà un profondo rinnovamento culturale. La rivoluzione digitale modifica, dissolvendoli in larga parte, gli ancoraggi alla dimensione fisica del lavoro, quelli riferibili ai concetti di spazio, tempo e velocità. La dislocazione dei lavoratori in luoghi diversi, la destrutturazione dell’organizzazione temporale, il vorticoso aumento nella velocità dei sistemi di comunicazione, determinano una netta cesura con la tradizionale organizzazione del lavoro. Con la loro radicale trasformazione scompaiono di fatto gli assi cartesiani di un sistema sostanzialmente immutato dall’inizio della rivoluzione industriale.
Di fronte a un cambiamento così profondo, appare inadeguata, se non ingenuamente superficiale, la definizione di “new normal”, perché all’orizzonte non si intravede nessuna nuova normalità. Quello a cui stiamo assistendo è un cambio di paradigma, una mutazione antropologica del mondo del lavoro. L’intero sistema che conoscevamo è andato in crisi, basterebbe interrogarsi su un fenomeno come “le grandi dimissioni” per comprendere quanto sta accadendo, e non si tratta di un fenomeno solo americano, come si pensava all’inizio, la recente indagine a cura dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, dimostra che se non fossimo in presenza di un mercato del lavoro rigido, questa tendenza avrebbe ben altri numeri anche nel nostro paese. Le richieste che emergono da questa ricerca esprimono una forte esigenza di cambiamento, e rispetto al passato il miglioramento della condizione economica non sembra essere più l’unica ragione, o la ragione principale. Assumono grande rilievo, il bisogno di sentirsi coinvolti, essere parte attiva di un progetto, aver chiaro uno scopo, all’interno di contesti capaci di valorizzare l’autonomia e il senso di responsabilità. Grande attenzione infine viene data al concetto di benessere, fondamentale in una visione del lavoro che vuole rimettere al centro le persone, in quanto attori principali e non “pedine del business”.
Si aggiunge, alla prematura e un po’ superficiale ricerca di una nuova normalità, il rischio che l’adesione alle forme di organizzazione del lavoro digitale avvenga per mero opportunismo e quindi con una scarsa consapevolezza, sia da parte delle aziende che dei lavoratori. Da un lato, i forti risparmi sul fronte dei costi fissi e la constatazione di buoni livelli di produttività, hanno fatto cambiare idea sullo smart working ad aziende che in passato lo avevano sempre ostacolato. Dall’altro lato, molti lavoratori, spesso in contrasto con le loro organizzazioni sindacali, preso atto di alcuni degli innegabili benefici e comodità del “lavoro da casa”, non intendono più tornare alle vecchie consuetudini. È chiaro, dunque, che il passaggio a una vera condizione di lavoro agile meriterebbe una riflessione più approfondita, che non può non partire dal chiedersi cosa accade alle persone, alle loro relazioni, ai processi identitari e al senso di appartenenza, nel momento in cui il cambiamento tocca e modifica l’idea di spazio, di tempo e la velocità dei processi informativi in cui siamo immersi.
Lo Spazio
Per comprendere che cosa ha rappresentato lo spazio degli ambienti di lavoro, basterebbe ascoltare le tante testimonianze di chi in quei luoghi ci ha passato una vita, magari lavorando in condizioni che oggi apparirebbero fortemente disagevoli. Perché quei racconti, accompagnati spesso dal sentimento di orgoglio di chi era consapevole di aver dato un importante contributo, aiutano a capire bene cosa significa un luogo capace di creare identità e senso di appartenenza. Un’idea molto chiara a un imprenditore visionario come Adriano Olivetti che, consegnando alla comunità quegli edifici oggi diventati patrimonio dell’Unesco, affermava: “… l’uomo che vive la lunga giornata nell’officina, non sigilla la sua umanità nella tuta da lavoro”.
E a chi pensa a questi esempi come qualcosa di ormai superato e lontano nel tempo, possono essere di aiuto le parole di Satya Nadella, CEO di Microsoft, convinto che il “capitale sociale” accumulato lavorando in presenza, sia stata la risorsa che ha consentito di mantenere efficiente la collaborazione durante la fase di forzato lavoro a distanza. Tanto da affermare: “forse stiamo bruciando una parte del capitale sociale costruito prima, in questa fase in cui lavoriamo a distanza”.
A questo punto è utile sgombrare il campo dall’idea di voler dimostrare che il lavoro in presenza sia per definizione migliore, lo scopo è quello di prendere in esame alcune fondamentali e ineliminabili differenze, spesso sottovalutate. L’enorme quantità di segnali sensoriali che percepiamo nell’ambiente naturale non è riproducibile nella dimensione virtuale. Sarebbe sufficiente riflettere sul concetto di potere per scoprire quanto i luoghi di lavoro, gli oggetti, la disposizione delle persone nello spazio, di fatto tutta la componente analogica e non verbale della comunicazione, siano determinanti nel segnalare quelle asimmetrie caratteristiche delle relazioni one up one down. Qual è il peso di queste componenti dell’interazione nella definizione delle relazioni? Quanto hanno concorso all’acquisizione di un ruolo manageriale le reali conoscenze e competenze e quanto invece una dimensione più sotterranea, istintiva e inconsapevole della leadership, che proprio delle relazioni all’interno di uno spazio fisico si alimentava? E cosa accade quando, smart working o lavoro a distanza che sia, si deve essere capaci di gestire e motivare collaboratori non più in presenza per larga parte del loro tempo? La dimensione digitale del lavoro riduce enormemente la quantità di segnali legati alla parte più antica e istintiva della nostra comunicazione. Lo spazio virtuale è per sua natura più neutro e simmetrico nella definizione delle relazioni, condizione che può rivelarsi anche favorevole quando lo scopo dell’interazione è prevalentemente informativo, ma del tutto sfavorevole nelle situazioni che richiedono di valorizzare lo scambio emotivo-relazionale, e quest’ultima funzione è troppo importante per essere abbandonata, poiché intimamente legata alla qualità delle relazioni e al benessere delle persone.
La minore possibilità di gestire le dinamiche di relazione nella loro sede naturale impone la capacità di farlo utilizzando le moderne tecnologie di comunicazione, e questo richiede maggiore attenzione e competenza. Il gesto istintivo dev’essere sostituito dalla parola consapevole, capace di rendere esplicito, attraverso le parole (tecnicamente metacomunicare), quanto era implicitamente chiaro nella relazione naturale. Si tratta di una competenza tutt’altro che elementare e quasi del tutto estranea alla cultura del lavoro che abbiamo conosciuto finora. Allora si comprende quanto sia importante per il lavoro del futuro riuscire a gestire strategicamente queste due diverse dimensioni, reale e virtuale, presenza e distanza, guidati da scelte consapevoli rispetto alla loro composizione, ma anche attraverso l’acquisizione di nuove competenze.
Il Tempo
La destrutturazione dell’orario di lavoro è il secondo grande cambiamento prodotto dalla digitalizzazione. Un tempo erano le sirene delle fabbriche a scandire il ritmo di vita di un’intera comunità, oggi la dimensione agile del lavoro ha associato all’idea di “qualunque luogo” quella di “qualunque tempo”. Poter scegliere quali ore dedicare al lavoro non significa però passare da un tempo sociale del lavoro, formalmente riconosciuto, al rischio di una dimensione del lavoro come “flusso continuo”, confuso con il resto delle attività della nostra vita. Per questa ragione il “diritto alla disconnessione”, già discusso in Francia prima della crisi pandemica, è diventato un tema molto attuale.
Il lavoro agile richiede indubbiamente capacità di autorganizzazione, se da un lato molti apprezzano libertà e autonomia, è chiaro che devono parallelamente crescere il senso di responsabilità e l’autodisciplina, ma c’è chi si spinge oltre e si chiede: da sempre la retribuzione del lavoro è stata commisurata al tempo della prestazione, ora che questo parametro per molti lavoratori è saltato, perché non ancorare la retribuzione al raggiungimento dei risultati? Prima considerazione: la sola domanda lascia ben intuire l’entità dei processi che queste trasformazioni hanno messo in moto. Un’analisi più attenta, tuttavia, al di là della fertile provocazione, mette in luce una situazione che appare ancora molto lontana da questa prospettiva. Per ora, infatti, solo una percentuale molto ridotta dei “lavoratori in remoto” si trova in una condizione di vero smart working, lavora cioè per obiettivi. Situazione che denuncia una lentezza nei processi di riorganizzazione e un insieme di resistenze legate a una scarsa predisposizione culturale a questa modalità di lavoro. Tra l’altro, esiste da sempre una retribuzione del lavoro slegata dal parametro temporale, si tratta del lavoro a cottimo, esempio che aiuta a riflettere, con buona pace del compagno Aleksej Stachanov, quanto una retribuzione legata agli obiettivi dovrebbe essere capace di valutare anche la qualità complessiva del risultato raggiunto.
Non è possibile, dunque, immaginare di destrutturare l’organizzazione del tempo senza provocare effetti profondi nella vita delle persone, ma dobbiamo anche accettare l’dea che questa trasformazione è già in atto da tempo. Nella dimensione digitale siamo sempre connessi, le relazioni non conoscono limiti e non sono soggette a barriere temporali, possiamo però diventarne via via più consapevoli ampliando le nostre possibilità di scelta.
La Velocità
Se la perdita dei tradizionali riferimenti di spazio e tempo genera disorientamento, il continuo aumento della velocità dei processi informativi nei quali siamo immersi produce stress e senso di inadeguatezza. La capacità di processare enormi quantità di dati in tempi velocissimi ha reso le macchine capaci di sostituire le persone in attività sempre più complesse, il confronto con la macchina è impossibile su questo terreno, la strategia per poter contrastare il senso di inadeguatezza deve fare appello alle qualità distintive dell’intelligenza umana, l’ispirazione può arrivare, ancora una volta, da lontano.
Nello stesso anno, il 1936, in cui Charlie Chaplin girava Tempi moderni, Hans Selye, un giovane medico austriaco, conduceva alcuni esperimenti nel suo laboratorio di Montreal, durante i quali doveva iniettare nei topi liquidi di natura diversa. Le osservazioni relative alle reazioni fisiologiche degli animali lo portarono, in maniera del tutto indipendente dagli scopi originari della ricerca, a elaborare una teoria denominata “Sindrome generale da adattamento”. Quando decise di definire, sinteticamente, l’insieme di questi fenomeni con un termine fino ad allora utilizzato nello studio dei metalli, “stress”, non avrebbe mai potuto immaginare di aver coniato un concetto che nel giro di pochi anni sarebbe diventato, anche questo, l’emblema di un’epoca. Ed è proprio la nozione di stress, e in particolare quanto abbiamo appreso su come affrontarlo, che può fornirci un valido aiuto per gestire strategicamente l’impatto che i grandi cambiamenti del lavoro digitale rischiano di generare sul benessere delle persone. Non esiste, infatti, un criterio oggettivo per valutare il potenziale “stressante” di un certo stimolo ambientale. Selye stesso affermava: “Lo stress non dipende tanto da ciò che facciamo o da ciò che accade, quanto dal modo in cui lo interpretiamo”.
Diventa determinante allora il nostro sguardo, il significato che riusciamo ad attribuire a una realtà che muta di fronte ai nostri occhi. Come nella Macondo di Gabriel García Márquez, in Cent’anni di solitudine, siamo immersi in un mondo “così recente, che molte cose sono prive di nome, e per citarle bisogna indicarle con il dito”. E’ dovere morale e insieme, straordinaria opportunità, per tutti gli attori coinvolti in questa trasformazione, trovare le parole per identificare e comprendere a fondo questa nuova antropologia del lavoro, così da superare spaesamento e senso di inadeguatezza e “ritornare al governo della nostra nave”. Perché come afferma il filosofo Luciano Floridi: “Il capitale semantico è ciò che usiamo per dare significato e senso alla realtà che ci circonda. Il capitale semantico è specifico dell’uomo. Non è terreno dell’intelligenza artificiale. Semantizzare il mondo vuol dire dunque dare significato e senso alle cose che ci circondano”.
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