Massimo Berlingozzi – Intervista Dibattito pubblicata su MIT Sloan Management Review Italia – estate 2022
Quali rischi corriamo se assumiamo il modo di apprendere delle macchine digitali (machine learning) come modello per l’apprendimento umano?
Non credo sia una buona idea ispirarsi ai modelli di apprendimento delle macchine digitali, la macchina non è consapevole del suo operato, individua correlazioni statistiche all’interno di giganteschi set di dati attingendo alla sua enorme potenza di calcolo. L’esito è straordinario quando l’obiettivo è un compito limitato e specifico, ma questa capacità decade appena si allarga il campo aggiungendo o spostando qualche elemento, con esiti a volte comici reperibili in letteratura. La nostra capacità di trasferire conoscenze pregresse, per utilizzarle in nuovi contesti, è invece una delle qualità peculiari della nostra intelligenza: flessibilità, intuizione, creatività, capacità di adattamento, sono risorse che hanno caratterizzato il nostro percorso evolutivo. E poi, i nostri processi conoscitivi non riguardano solo la risoluzione di problemi, spesso siamo spinti da motivazioni diverse. Quando Edward De Bono afferma: “il pensiero verticale si mette in moto solamente se esiste una direzione in cui muoversi, il pensiero laterale si mette in moto allo scopo di generare una direzione”, credo riassuma molto bene il desiderio di senso e di libertà che anima il nostro pensiero. Vogliamo davvero perdere tutto questo?
Quali sono le skill più importanti per restare umani nei tempi in cui ci viene proposto di specchiarci nei nostri ‘gemelli digitali’?
Prima cosa, non dare per scontati quegli aspetti distintivi dell’intelligenza umana a cui abbiamo accennato, perché quelle doti sono il portato del percorso evolutivo che ha preceduto l’era della rivoluzione digitale. La vita “onlife” è storia recente, è da una quindicina d’anni che non è più necessario sedersi davanti a un computer e ascoltare il “gracidare” del modem per essere connessi. Tra qualche anno probabilmente capiremo di più e meglio, ma l’impatto che questa trasformazione sta producendo sulle nostre vite è già molto evidente. Per questa ragione credo che il pensiero critico sia la risorsa più importante da preservare come “antidoto” verso sistemi sempre più potenti e pervasivi pronti ad anticipare i nostri pensieri e le nostre scelte. C’è molto marketing attorno alle innovazioni del mondo digitale, ai progressi dell’intelligenza artificiale, alla nuova frontiera del metaverso. Per troppo tempo è prevalso un atteggiamento ingenuo di fronte al potente storytelling alimentato dai giganti del settore. È ora di tornare “adulti”.
La scuola può avere un ruolo importante in questo senso?
Credo proprio di si, ma ripeto: dobbiamo abbandonare il “paese dei balocchi”. È di pochi giorni fa un eccellente esempio in questo senso: Il grande rilievo mediatico dato alla prima tesi di laurea al mondo “discussa nel metaverso” da uno studente dell’Università di Torino. Scorrendo le notizie in rete e quelle sui principali quotidiani, non compariva nessuna riflessione critica: tutti inconsapevolmente impegnati a vendere qualcosa che ancora non esiste. Questo atteggiamento non è più sostenibile e rischia di farci trovare completamente impreparati di fronte a temi di grande complessità che riguardano il nostro futuro. La scuola può fare davvero molto, basterebbe riprendere il consiglio di un grande visionario e studioso dell’evoluzione tecnologica dei media, Marshall McLuhan, che affermava, quando ancora il Web non c’era: “la scuola dovrebbe insegnare l’epistemologia dei mezzi di comunicazione.”
Qual è l’idea più importante che dovrebbe guidare un mondo del lavoro che si avvia a intensificare sempre di più il rapporto uomo-macchina?
Il mondo del lavoro si trova in una fase di radicale cambiamento. Nessuno sa esattamente cosa accadrà nel prossimo futuro, ma sono certo che chi tra molti anni studierà questo periodo, lo descriverà come un passaggio epocale. La discontinuità generata dai due anni di emergenza sanitaria, peraltro ancora non finita, ha fatto saltare una quantità di meccanismi che avevamo ingenuamente immaginato come stabili e consolidati. Si è rotto un equilibrio, non solo quello delle grandi catene logistiche e delle materie prime, qualcosa è accaduto anche dentro alle persone. Non si tratta più di impressioni, numerose indagini hanno messo in luce il forte desiderio di cambiamento che ha portato molte persone a fare scelte, a volte radicali, riguardo al lavoro, pur di ritrovare una condizione di maggior benessere nella loro vita. Molti segnali, soprattutto quelli che riguardano i giovani, indicano il desiderio di una diversa etica del lavoro, nella quale la ricerca di senso sembra giocare un ruolo determinante. E io credo che proprio quest’ultimo dato sia da monitorare con la massima attenzione per quanto riguarda il rapporto uomo-macchina.
Può approfondire questo aspetto?
È già accaduto, all’inizio della rivoluzione industriale, che qualcuno si sentisse minacciato dall’avvento delle macchine, con i luddisti che distruggevano i telai a vapore. Oggi nessuno si lamenta quando una macchina ci libera dalla fatica fisica, ma le macchine di oggi sembrano capaci di sfidare la nostra l’intelligenza. Molte posizioni di lavoro, anche complesse, vedono già oggi le macchine operare in modo straordinariamente più efficace e questa tendenza non potrà che aumentare. Diviene a questo punto fondamentale saper riconoscere con chiarezza gli aspetti distintivi e unici dell’intelligenza umana, e questo non avverrà mai specchiandoci nel nostro “gemello digitale”. Se poi l’asticella del confronto, per quanto riguarda il lavoro, viene posizionata su velocità, quantità di lavoro, eliminazione degli errori, mente calcolante, non potremo che generare frustrazione e, inevitabilmente, stroncare sul nascere qualsiasi ricerca di senso. L’inseguimento delle macchine sul loro terreno è destinato a intorpidire il pensiero e a inaridire le nostre relazioni. Dobbiamo ribadire con forza che il pensiero cosciente è solamente umano, che non esiste una intelligenza artificiale capace di comprendere il linguaggio, lo imita, lo riproduce, ma simulare e pensare sono processi del tutto diversi. E, a partire da questa consapevolezza, liberare la nostra immaginazione per costruire spazi, idee e conoscenze su cui fondare un futuro del lavoro basato sul pieno riconoscimento delle qualità umane.