Il femore rotto della nostra civiltà

Massimo Berlingozzi. – 9 gennaio 2022

Molti anni fa, durante una lezione universitaria, alcuni studenti chiesero a Margaret Mead qual era, secondo lei, il primo segno individuabile come l’inizio della nostra civiltà, della nostra cultura. La risposta, poco prevedibile della Mead, non indicò un graffito o un utensile, ma un femore. Un femore prima rotto e poi guarito. Nel mondo animale, spiegò, un incidente di questo tipo significa morte certa per la perdita dell’essenziale autonomia. Qualcuno invece aveva accudito quella persona, l’aveva aiutata attendendo la sua guarigione. L’argomentazione di Margaret Mead, prima ancora di chiedersi quanto esatta sia quella risposta, lancia un messaggio molto chiaro riguardo all’originaria natura solidale del patto sociale e al senso di comunità come elemento fondante della nostra civiltà.

Cosa è accaduto in questi ultimi due anni per smarrire tutto questo? Davvero, la ricerca di astratte libertà, rinchiusi in estemporanei recinti identitari, può averci fatto dimenticare qualcosa di così essenziale? Forse abbiamo tutti bisogno, come in una delle fiabe più belle di sempre, di un giovane fanciullo che ci indichi che il Re è nudo! Perché ognuno di noi, quando beneficia di costosissimi servizi sanitari, usufruisce della scuola pubblica, o semplicemente può risarcire i danni di un grave incidente attraverso il pagamento di un premio annuale all’assicurazione, gode dei vantaggi legati alle molte forme di applicazione di quel patto!

Chi ha deciso di rallentare, di fermarsi, di limitare la propria libertà, anche rischiando, per aiutare un’altra persona a riparare quel femore ferito; accetta, in nome di un bene superiore, quel disagio così ben descritto da Freud nel suo Il disagio della civiltà, che ci ha portati a scegliere di scambiare quote di libertà in favore di quote di reciproca sicurezza. Concepirsi al di fuori di quell’inevitabile vincolo d’interdipendenza, temo sia una pericolosa illusione.

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