La Competenza Emotivo Comportamentale come fattore umano

People use their smartphone to take photos of the L'Oreal fashion show on the Champs Elysees avenue during a public event organized by French cosmetics group L'Oreal as part of Paris Fashion Week, France, October 1, 2017. REUTERS/Charles Platiau
Massimo Berlingozzi  – Diego Ingrassia  
Pubblicato su: “Il Cuore nella Mente”  – Diego Ingrassia novembre 2018
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La mia vita è diventata una distrazione dal mio smartphone

David Meredith e Robert James

 

IL MONDO IN CUI VIVIAMO

“Buon compleanno, caro Marc”, il prossimo 5 dicembre compirai 29 anni. Cominciava così, un articolo comparso nel dicembre del 2008 sulla rivista francese “Le Tigre”. Chi legge quell’articolo, all’interno trova anche un paio di foto di Marc, e poi molte informazioni su di lui, quasi l’intera biografia: dove vive, che lavoro fa, i luoghi dove viaggia più spesso (date comprese), le sue passioni, gli amici, il battesimo di una nipotina. Marc è celibe ed eterosessuale, ci sono anche i nomi di due ex fidanzate (con tanto di descrizione fisica). Lui però non sa nulla di tutto questo, “Le Tigre” non ha una grandissima diffusione, ma un amico, a cui capita di leggere l’articolo, lo chiama per informarlo. Marc è stupito, non capisce, telefona alla sede della rivista, si arrabbia, ma dalla redazione del giornale gli rispondono che tutto quello che hanno mandato in stampa era di pubblico dominio. Chiunque poteva avere quelle informazioni, perché Marc stesso le aveva pubblicate in Rete.

Tutto questo accadeva nel 2008. Sono passati solo dieci anni ma in questo tempo il “ciclone” di internet ha viaggiato a grandissima velocità. La geniale provocazione di “Le Tigre” mirava a risvegliare le coscienze rispetto a una consapevolezza che non c’era, e forse ancora non c’è: cosa sta cambiando, nella nostra visione del mondo e nei nostri comportamenti, attraverso l’uso massiccio di questi strumenti? Non vogliamo lanciarci in una disquisizione di carattere sociologico, ci limiteremo ad analizzare alcuni effetti, documentati, direttamente collegati con lo sviluppo delle competenze inerenti al nostro metodo.

Il primo IPhone è uscito nel 2007, oggi uno smartphone è nelle mani di chiunque, per la precisione il 65% della popolazione mondiale. Il 74% degli abitanti del pianeta ha accesso a internet, due miliardi e mezzo di persone usano Facebook, su Google vengono fatte più dell’80% delle ricerche on line. Ogni minuto in Rete si effettuano: 900 mila login su Facebook, 3,5 milioni di ricerche su Google, vengono visti 4,1 milioni di video su You Tube, e postate 1,8 milioni di foto su Snapchat. Qualcuno ha calcolato che nel solo 2012 sono stati prodotti più dati che nei cinquemila anni precedenti.

Una massa di dati (secondo molti la vera fonte di ricchezza del futuro), dalle dimensioni stratosferiche, è a disposizione di poche, grandissime compagnie; GAFA è un acronimo che racchiude le quattro più grandi (Google, Amazon, Facebook, Apple). Da questo oceano di dati, potenti algoritmi estraggono pacchetti di informazioni declinate su precisi obiettivi. Tecniche di profilazione sempre più evolute, rispetto alle quali l’indagine su Marc è pura preistoria, arrivano a conoscerci meglio di un nostro vecchio amico, e questo accade perché anche le emozioni fanno parte di questa partita.

Un’altra data importante in questo scenario è il 4 dicembre del 2009, quando, come ci ricorda Michele Ainis in un suo recente libro, avviene una significativa rivoluzione: Google informa i suoi utenti che da quel giorno le ricerche diventeranno personalizzate, ovvero: i risultati cambiano in funzione delle ricerche precedenti. Prendiamo nota anche di questo secondo aspetto importante: le risposte che il web ci fornisce, ricerca dopo ricerca, cominciano a coincidere sempre di più con le nostre aspettative: uno “specchio di Narciso” che continua a rinviarci la nostra immagine. Situazione che di certo non aiuta lo sviluppo delle competenze su cui stiamo lavorando, rinforzando quel pericoloso errore, “l’avverarsi della profezia”, che abbiamo trattato nel settimo capitolo.

È una storia ancora breve, ma alcuni effetti cominciano a essere studiati, per uno di questi si è creato un apposito neologismo: “phubbing”. Nato dalla fusione di snubbing (snobbare) e phone, ci rinvia a un significato fin troppo chiaro, perché aver generato o subìto questo comportamento, appartiene probabilmente all’esperienza di ognuno di noi: essere in compagnia di qualcuno e continuare a indugiare sul proprio smartphone distraendosi dalla relazione reale. Fenomeno che ben rappresenta una deriva decisamente pericolosa per la qualità delle relazioni. È evidente infatti che la pratica di questo comportamento pone la persona che lo attua in una posizione one-up rispetto al suo interlocutore. È probabile che questo avvenga molto spesso nella completa inconsapevolezza delle persone coinvolte, ma non nell’indifferenza della loro parte emotiva. La dinamica one-up/one-down è infatti un meccanismo potente, capace di attivare il nostro cervello emotivo, all’origine di molte patologie relazionali che possono sfociare in veri e propri conflitti.

Analoghi comportamenti sono individuabili anche nelle relazioni affettive, quando, all’interno della coppia, si manifesta il “partner phubbing”, fenomeno destinato a creare trascuratezza nella relazione, disagio e sentimento di abbandono. In uno studio pubblicato su Computers in Human Behavior dal titolo emblematico “La mia vita è diventata una distrazione dal mio smartphone” gli autori David Meredith e Robert James, parlano proprio di questo, di uno strumento capace di generare un desiderio superiore a quello per il partner. Può sembrare paradossale provare gelosia per un oggetto, uno smartphone, ma quello che emerge dalla ricerca è esattamente questo: la presenza dell’oggetto, sempre visibile, che si frappone tra i partner nella relazione.

Le tecnologie digitali hanno facilitato, velocizzato, potenziato e reso sempre disponibile lo scambio delle informazioni, aprendo spazi un tempo inimmaginabili nei rapporti tra le persone. Insieme a questo però si sono modificati i linguaggi e le forme della relazione. L’idea che gli strumenti di comunicazione siano, nella loro essenza, neutri, per cui dipende da noi l’uso buono o cattivo che ne facciamo, come ci ha insegnato McLuhan è un pensiero ingenuo. La natura profonda di un mezzo di comunicazione produce un inevitabile cambiamento nella rappresentazione della realtà.

LA COMPETENZA EMOTIVA

Lo sviluppo della competenza emotiva, di cui stiamo parlando dall’inizio di questo libro, non può non tenere conto dello scenario che abbiamo appena descritto. E questo vale, non solo per chi tra le pagine di questo libro ha trovato lo stimolo per approfondire competenze specialistiche inerenti alla propria professione, ma anche per tutti coloro che nello sviluppo della competenza emotivo comportamentale vedono un’opportunità per migliorare le proprie relazioni personali, con gli amici, in famiglia, con i figli, attraverso una migliore consapevolezza delle proprie e altrui emozioni.

Per millenni gli esseri umani non hanno pensato alle proprie emozioni, non si sono posti nessuna domanda su come agire di fronte a un’emozione, poiché l’uomo “veniva agito dalle emozioni”. Abbiamo più volte spiegato come il meccanismo automatico delle emozioni abbia concorso alla sopravvivenza della nostra specie nel corso dell’evoluzione e, nonostante le minacce fisiche nella vita civile moderna siano decisamente diminuite, continua comunque ad assolvere a questa funzione in specifiche situazioni. Chiaramente le condizioni sono mutate, e alcuni di questi profondi cambiamenti riguardano la vita di relazione. Si pensi per esempio alla funzione adattativa del disgusto: un nostro antenato preistorico correva spesso il rischio di entrare in contatto con sostanze nocive nell’attività di ricerca del cibo, la funzione del disgusto era vitale. Noi, quando facciamo la spesa al supermercato, siamo completamente tutelati. Ma se pensiamo alle relazioni lo scenario cambia, i nostri antenati vivevano in comunità stabili composte da non più di una o due centinaia di persone, noi superiamo di gran lunga quel numero dentro qualsiasi metropolitana ogni mattina, creando le premesse per far scattare la funzione del disgusto, causato da un’eccessiva vicinanza con un numero troppo elevato di estranei.

La maggiore esposizione sul fronte delle relazioni non ha tuttavia alterato nulla nella fisiologia delle emozioni, nella dimensione “fisica” che coinvolge il nostro corpo. Su questo punto è importante fare una riflessione finale. Autori come Francisco Varela e Antonio Damasio, sono stati precursori del concetto di “embodied mind”, ossia di una “mente incarnata”. Secondo questi autori non può esistere un’attività cognitiva senza un corpo e in questo processo, come abbiamo visto in altre parti del libro, le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Prendiamo per un’ultima volta in esame i nostri sei canali di osservazione:

  • le espressioni facciali
  • il linguaggio del corpo
  • la voce
  • il contenuto verbale,
  • lo stile verbale
  • il sistema nervoso autonomo

se escludiamo alcuni elementi di osservazione legati al contenuto e allo stile verbale, ci troviamo di fronte a una netta prevalenza di segnali di comunicazione analogica, la cui origine è quindi intimamente legata alla fisicità del corpo. Le emozioni sono al centro dell’intreccio psicosomatico, non può esistere un’emozione senza un corpo.

Per questa ragione, la capacità di entrare in connessione emotiva, la “dimensione del sentire”, l’ascolto empatico, giocano un ruolo di fondamentale importanza per rendere “percorribile”, al di là della pura conoscenza, la possibilità di agire queste competenze. E questa è la ragione per cui preoccupano alcuni degli effetti determinati dalla “rivoluzione digitale” precedentemente descritti. La soluzione non è certo quella di trasformarsi in luddisti del terzo millennio, nessuno può arrestare processi di queste dimensioni e nessuno vuole disconoscere i meriti e i progressi connaturati a questa grande trasformazione. Si tratta solo di diventare pienamente consapevoli di cosa questi cambiamenti producono dentro di noi, e nello stesso tempo comprendere a fondo il valore unico dell’esperienza umana.

C’è qualcosa che ancora le macchine non possono fare, questo dovrebbe renderci orgogliosi della nostra natura umana. Quando l’intelligenza è pura potenza di calcolo non c’è partita tra l’intelligenza della macchina e quella umana, è noto che l’intelligenza artificiale è riuscita a battere i migliori giocatori di scacchi e più recentemente il campione mondiale nell’ancor più complicato gioco del Go. Ma la macchina non è consapevole di quello che fa, non ha coscienza, non ha emozioni. C’è qualcosa nell’intelligenza umana che non può essere ridotto a un algoritmo: generalizzare e astrarre regole apprese, contestualizzare gli elementi di senso di una decisione; comprendere le conseguenze di una determinata scelta; essere capaci di fornire risposte anche di fronte a situazioni ambigue, tollerare l’incertezza; agire comunque, se necessario, anche in assenza di una procedura o di un programma. Tutte queste sono caratteristiche peculiari dell’intelligenza umana, anche perché le emozioni giocano un ruolo determinante in questi processi.

 “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce”, è un celebre aforisma di Blaise Pascal che riassume mirabilmente il ruolo e l’importanza della competenza emotiva con tre secoli di anticipo rispetto alle conoscenze di cui abbiamo parlato nei precedenti capitoli. Alla fine di questo percorso, la cosa più importante da ricordare, è proprio questa: nella sintesi tra cuore e ragione, che trova sempre più conferme da parte delle più recenti acquisizioni delle moderne neuroscienze, risiede il valore più profondo dell’intelligenza umana.

Chi poi è preoccupato per alcune delle derive descritte, ha probabilmente un unico modo per potersi difendere: creare un cocktail diverso per la gestione del proprio tempo, tornando ad assegnare un’adeguata proporzione alle relazioni mediate dalla corporeità e alle parole accompagnate dallo sguardo negli occhi dell’altro.

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