La pratica del Coaching nell’era dello Stress

Massimo Berlingozzi  e  Diego Ingrassia
Pubblicato su:  Psicologia Contemporanea  –  settembre/ottobre  2018  n° 269
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Nel 1936 Hans Selye, un giovane medico austriaco, stava conducendo alcuni esperimenti nel suo laboratorio di Montreal, durante i quali doveva iniettare nei topi liquidi di natura diversa. Le osservazioni relative alle reazioni fisiologiche degli animali lo portarono, in maniera del tutto indipendente dagli scopi originari della ricerca, a elaborare una teoria denominata “Sindrome generale da adattamento”. Quando decise di definire, sinteticamente, l’insieme di questi fenomeni con un termine fino ad allora utilizzato nello studio dei metalli, “stress”, non avrebbe mai potuto immaginare di aver coniato un concetto che nel giro di pochi anni sarebbe diventato l’emblema di un’epoca. Un’epoca magistralmente rappresentata da una pellicola che uscì nelle sale cinematografiche in quello stesso 1936, “Tempi moderni”, nella quale il genio di Charlie Chaplin metteva in scena uno Charlot incapace di resistere ai ritmi della macchina nella catena di montaggio, fino ad essere risucchiato dai suoi ingranaggi. Gli studi di Selye ebbero nel giro di pochi anni una grande risonanza, l’importanza del suo lavoro risiede nell’aver portato l’attenzione della ricerca sulla risposta adattiva di un organismo sottoposto all’influenza di fattori esterni. Interessante, da questo punto di vista, la definizione di Lazarus e Folkman (1984): “Lo stress è una transazione tra la persona e l’ambiente, nella quale la situazione è valutata dall’individuo come eccedente le proprie risorse e tale da mettere in pericolo il suo benessere”. 

Le condizioni lavorative odierne sono molto diverse dalla rappresentazione cinematografica di Chaplin in “Tempi moderni”, le normative sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori, almeno nei paesi più avanzati, hanno decisamente migliorato la situazione. Il lavoro rimane comunque la causa più importante di stress, ma le cause si sono spostate da un malessere determinato prevalentemente dal logoramento fisico a quello generato da tensioni accumulate nelle relazioni sociali. E’ importante tuttavia aggiungere che non è possibile stabilire un criterio oggettivo per valutare il potenziale “stressante” di un certo stimolo ambientale, l’accento posto in questa direzione nei lavori di Folkman e Lazarus, sulla valutazione soggettiva dell’individuo, trova piena concordanza con le intuizioni pioneristiche di Selye, che spiegava: “Così, si può senz’altro affermare che lo stress non dipende tanto da ciò che facciamo o da ciò che ci accade, quanto dal modo in cui lo interpretiamo”. Ed è proprio su questa affermazione che è necessario soffermarsi, perché in essa è possibile individuare sia l’origine del problema che le possibili soluzioni. Il concetto di stress infatti è cosi connaturato con le abitudini e i ritmi del nostro tempo da sembrarci del tutto normale, e questa apparente normalità ci pone nella condizione del pesce che non s’interroga sull’acqua in cui nuota. E’ a partire da queste considerazioni che assumono un significato preciso le nozioni di eustress (stress positivo) e distress (stress negativo). Non è difficile infatti constatare che attività estremamente gravose dal punto di vista fisico e mentale, come alcuni sport cosiddetti estremi, ma più semplicemente anche molte attrazioni presenti in popolarissimi parchi avventura, vengano liberamente scelte come forme di svago e divertimento. Mentre compiti infinitamente meno gravosi richiesti da normali attività lavorative possano determinare forme di disagio tali da richiedere l’intervento di uno specialista.

Risulta più facile a questo punto comprendere come la condizione di eustress sia determinata dalla consapevolezza di essere perfettamente in grado di governare la situazione mantenendo lucidità ed equilibrio. Questo tipo di risposta produce gratificazione e migliora l’autostima. I fattori che invece generano distress sono generati dell’essere costretti a subire una situazione percepita come negativa, non riuscire a organizzare una risposta efficace e pensare di non poter fare nulla per sottrarsi a questo disagio. Questa situazione produce logoramento fisico e mentale, senso di frustrazione e uno stato di malessere progressivamente crescente. La possibilità di gestire efficacemente situazioni potenzialmente stressanti è quindi strettamente legata alla capacità di produrre efficaci strategie di risposta.  Tali strategie definite di “Coping” comprendono l’insieme delle azioni, di tipo cognitivo e comportamentale, messe in atto intenzionalmente dal soggetto con lo scopo di “fronteggiare” l’impatto negativo dell’evento stressante. Strategie di risposta che rappresentano il risultato di una lunga elaborazione dell’esperienza personale, e dunque intimamente legate alle caratteristiche individuali del soggetto. Considerazione questa molto importante quando siamo chiamati ad affrontare questa tematica all’interno di una relazione di coaching.

Come è noto il coaching è una pratica che parte da un’attenta analisi della situazione presente, rende chiaro il traguardo auspicato e, attraverso un lavoro sul livello di consapevolezza e di responsabilizzazione del coachee, punta ad avvicinarsi il più possibile al raggiungimento della situazione desiderata. Si tratta quindi di mobilitare le risorse della persona per raggiungere l’obiettivo in modo efficace: un progetto che riguarda la sfera personale o professionale del cliente in una logica di proiezione verso il futuro, trascurando intenzionalmente lo sguardo retrospettivo. Il mondo del lavoro attuale è caratterizzato da un aumento dei livelli di complessità e incertezza, i nostri clienti ci riportano sempre più spesso situazioni nelle quali un comportamento consolidato e considerato come punto di forza nell’ambito di specifici contesti, si trasforma, nell’arco di un tempo molto breve, nella causa di numerosi problemi. Situazioni ad alto indice di stress, spesso aumentato dal senso di solitudine che i manager provano all’interno delle dinamiche di relazione nelle quali sono coinvolti. E’ naturale comprendere quanto sia difficile accettare questa situazione, e quanto sia importante affrontarla con la massima cura e attenzione. Quanto più aumentano i livelli di complessità e responsabilità in una attività professionale, tanto meno ci si può limitare a dipendere dalla sola competenza tecnico-specialistica. L’evoluzione dei processi all’interno delle organizzazioni e il continuo mutamento dei contesti e delle dinamiche di relazione, generano situazioni di disagio e fatiche che vengono percepite come fortemente limitanti rispetto alla propria capacità di azione e di espressione. Si rendono a questo punto necessarie, o meglio indispensabili, forti competenze relazionali e una buona padronanza della propria sfera emotiva.

Alcune ricerche hanno messo in luce come insuccessi e fallimenti possano essere spiegati attraverso i cosiddetti “fattori di deragliamento”: blocchi individuali e limiti personali che nascono quasi sempre da una mancata consapevolezza delle proprie dinamiche emotive e delle loro conseguenze. Questi fattori limitanti si manifestano nella difficoltà ad avere relazioni positive, nella scarsa capacità di gestire le emozioni quali ad esempio la rabbia, la paura o il disprezzo per ciò che viene percepito come diverso o lontano da sé. Oppure attraverso blocchi relativi al processo di decision making o nei disagi legati alla faticosa e difficile relazione con il potere sia agito che subito. Situazioni nelle quali una adeguata attività di coaching può essere la soluzione efficace. In merito alla gestione dello stress l’attività di coaching è in grado di fornire un valido aiuto per comprendere con maggiore lucidità la natura del problema, aumenta il livello di consapevolezza rispetto al coinvolgimento emotivo specifico, in altri casi riesce ad individuare un insieme di attività mirate a ridurre la tensione generata dallo stress negativo. Può essere utile a questo riguardo descrivere sinteticamente le principali strategie di coping:

Coping focalizzato sul problema: sono strategie che mirano a risolvere oppure modificare la situazione avvertita come minacciante. Nell’ambito di queste soluzioni è determinante l’apporto di tipo cognitivo, all’interno di una successione di fasi che possiamo riassumere in questo modo: attenta analisi della situazione; identificazione delle cause scatenanti; valutazione di alternative o possibili soluzioni; applicazione delle soluzioni individuate.

Coping centrato sulle emozioni: determinante in queste soluzioni l’apporto dell’intelligenza emotiva mirata al raggiungimento di un nuovo equilibrio. Il primo passaggio consiste nell’identificare e descrivere i comportamenti che mettiamo in atto per difenderci. Successivamente è importante comprendere il livello del nostro coinvolgimento emotivo e sviluppare consapevolezza rispetto alla natura delle nostre reazioni emotive, che possono rivelarsi efficaci oppure disfunzionali.

Coping centrato sulla ristrutturazione del problema: dal momento che lo stress, come abbiamo già visto, non dipende tanto da quanto accade ma da come noi interpretiamo la situazione, la ristrutturazione del problema consiste nel diventare capaci di attribuire un diverso significato alla situazione che ci procura disagio. La ristrutturazione è una tecnica molto raffinata ed efficace che richiede consapevolezza e un elevato grado di flessibilità mentale, ed è ovviamente più facile da realizzare attraverso un aiuto esterno.

Coping centrato sull’attività: in alcuni casi possono rivelarsi efficaci soluzioni che mirano a una riduzione della tensione generata dallo stress negativo attraverso la pratica di alcune attività sportive, esercizi specifici, oppure tecniche di rilassamento. Da alcuni anni ha preso piede la “Mindfulness”, una pratica meditativa di derivazione orientale adattata da Jon Kabat-Zinn, un professore di medicina della School of Medicine dell’Università del Massachussets, che nei primi anni 80’ ha sviluppato un protocollo: (MBSR) Mindfulness Based Stess Reduction, per introdurre la pratica della meditazione in contesti clinici.

In merito alla gestione attiva dello stress negli ultimi anni si è affermato un ulteriore concetto mutuato dallo studio dei materiali: la “resilienza”. Qualcuno individua le origini di questa parola nel termine latino, “resalio”, che indicava il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare. C’è una frase di Ernest Hemingway che rappresenta bene questo concetto: “La vita ci spezza tutti, ma solo alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati”. Più prosaicamente possiamo affermare che la persona resiliente è particolarmente capace nel mettere in atto efficaci strategie di coping, non si lascia mai sopraffare dagli eventi, affronta le avversità con motivazione e fiducia, convinto di poter trovare una soluzione.

Infine è utile ricordare che non esiste una strategia di coping migliore di un’altra, l’esperienza maturata nell’attività di coaching ci insegna che è l’interazione tra più strategie a poter fornire i risultati migliori. L’aspetto determinante è quindi la flessibilità, la capacità dinamica di cambiare quando necessario e di apprendere da nuove esperienze, e soprattutto: un atteggiamento positivo e di fiducia nelle proprie possibilità che porta ad agire, per sentirsi protagonisti e non soggetti passivi in balia degli eventi.

 

Bibliografia:
Lazarus, R. S.; Folkman, S. (1984) Stress, appraisal and coping. New York – Springer Publishing Company
Pancheri, P. (1980) Stress, emozioni, malattia. Introduzione alla medicina psicosomatica.  Milano Ed. Mondatori

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