L’Intelligenza Artificiale è già tra noi, perché non dobbiamo averne paura

Massimo Berlingozzi e Diego Ingrassia
Pubblicato su: Persone & Conoscenze  ESTE  –   aprile 2018 n° 128
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Difficile parlare di nuove professioni senza prima prendere in esame la paura, sempre più diffusa, verso un futuro ostile e incerto in cui macchine sempre più intelligenti ruberanno i posti di lavoro agli esseri umani. La questione è seria anche perché a rilanciarla, ponendola come una reale minaccia per lo sviluppo futuro della nostra civiltà, non ci hanno pensato riviste patinate o trasmissioni in cerca di servizi sensazionalistici, ma personaggi del calibro di Bill Gates, Elon Musk e il fisico Stephen Hawking, in un loro appello contro i pericoli di uno sviluppo incontrollato dell’intelligenza artificiale. Se poi vogliamo fare riferimento a specifiche previsioni riguardo al mondo del lavoro, basterebbe citare lo studio di due accademici di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, i quali hanno calcolato che nei prossimi due decenni, il 47% dei lavori negli Stati Uniti potrebbe essere spazzato via da robot e macchine intelligenti.

Il tema tuttavia è ancora molto controverso e non tutti la pensano allo stesso modo, una recente indagine dell’Ocse, curata da Melanie Arntz, Terry Gregory e Ulrich Zierahn, valuta che appena il 9% dei posti di lavoro, nei paesi più industrializzati, sarebbe a rischio. Quello che è certo è che siamo di fronte a un cambiamento epocale, prova ne è che, contrariamente a quanto molti pensano, l’impatto delle macchine intelligenti non riguarda soltanto il settore della produzione, ma si sta espandendo anche al modo dei servizi, dove il numero di robot e software intelligenti che si interfacciano con gli utenti, sono già il doppio di quelli del settore industriale. Una rivoluzione che sta coinvolgendo comparti del mondo del lavoro, inimmaginabili fino a poco tempo fa, legati ad attività di relazione: avvocati, giornalisti, militari, infermieri, medici, baby sitter, camerieri, ecc. Nessuna professione insomma sembra essere più totalmente al riparo.

Tutelare il valore dell’intelligenza umana

La paura che le macchine prendano il sopravvento sul lavoro dell’uomo è una storia antica che ci riporta con la memoria all’origine della rivoluzione industriale e ai luddisti che distruggevano i telai meccanici. Ma la paura odierna non è più verso la macchina come possibile sostituto della “forza lavoro”, oggi la macchina sfida l’intelligenza dell’uomo, il suo aspetto più nobile. È per questa ragione che dobbiamo essere capaci di definire e descrivere con precisione, cosa distingue l’intelligenza umana e in quali ambiti non è sostituibile.

Siamo consapevoli che quando l’intelligenza è “potere di calcolo” la macchina è nettamente superiore all’essere umano, ma sappiamo anche che solo in pochi casi, peraltro controversi, un computer è riuscito a superare il Test di Turing (ingannare una giuria di esperti facendogli credere di dialogare a distanza con un essere umano). Se guardiamo al cervello umano con i suoi 100 miliardi di neuroni e trilioni di sinapsi, ci rendiamo conto che nulla del genere è stato mai nemmeno lontanamente costruito, e sul piano dell’esperienza ci accorgiamo che in termini di consapevolezza e nella capacità di elaborare e contestualizzare in modo flessibile gli elementi di senso del reale, un bambino di pochi mesi dispone di capacità enormemente superiori a qualunque macchina intelligente.

Nel futuro, almeno prossimo, non è in atto quindi nessuna sfida a eliminazione con le macchine, si tratta invece di imparare a gestire sempre meglio, come sta già accadendo in alcune professioni, sistemi complessi, interfacce evolute macchina-uomo.

 

Selezione attraverso l’Intelligenza Artificiale

A titolo di esempio riportiamo il caso di una grande multinazionale, Unilever, che ha adottato, a partire dal 2016, un processo di selezione del personale che utilizza l’Intelligenza Artificiale e la Gamification. Il primo step riguarda l’apertura di posizioni lavorative su Linkedin o Facebook da parte dell’azienda. Il candidato si iscrive senza bisogno di inviare il classico curriculum, un algoritmo fa una prima valutazione delle competenze in base al profilo Linkedin. Il passo successivo, per chi viene ritenuto idoneo, consiste in una serie di giochi che misurano: concentrazione, memoria a breve termine, cultura generale, problem solving. Il tutto viene eseguito anche comodamente da casa, dal proprio smartphone. Le persone che superano questa fase, devono inoltrare un loro video messaggio di presentazione che un sofisticato software elabora in base alla voce, alle espressioni facciali, allo stile verbale e ai contenuti. Solo chi supera questo ultimo passaggio viene convocato in azienda per un classico colloquio di selezione condotto da psicologi esperti, che avranno modo di analizzare e valutare l’insieme dei dati provenienti dalla componente esclusivamente digitale del processo di selezione, integrandola con loro valutazioni durante il colloquio con il candidato.

Tornando quindi al tema iniziale è abbastanza semplice constatare che è impossibile fermare i grandi cambiamenti in atto, è per questa ragione che il modo migliore per contrastare il timore, spesso immotivato, verso il futuro, è la costante ricerca volta a comprendere sempre meglio gli elementi distintivi e il vero il valore dell’intelligenza umana. Continuare ad alimentare, attraverso la formazione, quel patrimonio di flessibilità cognitiva che ha caratterizzato la nostra straordinaria capacità di adattamento nel corso della storia.

La Grammatica della Relazione

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Harvard Business Review Italia  –  aprile 2018
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Parlare è un’attività così naturale che è del tutto normale dimenticarsi l’enorme complessità che la sostiene. Eppure, ognuno di noi quando parla utilizza e rispetta un insieme di regole in assenza delle quali le frasi pronunciate risulterebbero del tutto incomprensibili. Molte di queste regole le abbiamo apprese in modo naturale e spontaneo, attraverso l’ascolto e l’imitazione, quando eravamo molto piccoli. Per questa ragione alcune teorie sostengono che tale abilità sia una caratteristica unica della specie umana, una specializzazione cognitiva legata a una dotazione biologica innata codificata nei nostri geni. Una sorta di “Grammatica Universale” capace di elaborare all’infinito simboli astratti, all’origine di tutte le lingue. Quello che sappiamo tutti, invece, è che la scuola si è fatta carico di renderci consapevoli di molte delle regole che sono alla base di un uso corretto della lingua, migliorando quindi la nostra capacità di elaborare messaggi via via più complessi.

Esiste tuttavia una grammatica che a scuola nessuno ci ha insegnato. Conosciamo le parole, siamo capaci di sceglierle e combinarle in mille modi diversi in relazione alla situazione che stiamo vivendo, siamo invece molto meno consapevoli delle regole che presiedono alla costruzione delle relazioni. Ci fidiamo del nostro istinto, cerchiamo di limitare il disagio, desideriamo stare bene nelle relazioni, ma solo raramente riusciamo a guidare queste situazioni in modo consapevole. Eppure, tutti gli studi sulla comunicazione ci insegnano che la possibilità di comprendersi vicendevolmente aumenta in modo significativo in relazione al livello di sintonia che riusciamo a stabilire con i nostri interlocutori. Gli studi orientati a comprendere l’importanza del contesto e gli effetti della comunicazione sul comportamento fanno parte di una disciplina, definita “pragmatica”, che ha avuto, agli inizi degli anni ‘60, un notevole impulso da parte della cosiddetta “Scuola di Palo Alto”. Una visione di tipo sistemico che ha rivoluzionato il modo di guardare la comunicazione, gettando le basi per un approccio strategico alla gestione delle dinamiche relazionali. Studi che hanno generato un campo di applicazione molto vasto: psicoterapia, relazioni di aiuto, attività negoziali e di management.

Esplorare in modo approfondito e coinvolgente questo aspetto della comunicazione è l’obiettivo del workshop “La Grammatica della Relazione”, che si terrà a Milano presso la sede di I&G Management il 12 maggio. La natura delle relazioni nelle quali siamo quotidianamente coinvolti viene costruita attraverso una serie di “negoziazioni implicite”, che Gregory Bateson chiamava “proposte di relazione”. Dinamiche che in genere sfuggono alla nostra attenzione, ma che sono determinanti per definire i ruoli all’interno dei processi di comunicazione. Un’adeguata consapevolezza di quanto avviene a questo livello è una competenza di fondamentale importanza, in assenza della quale qualunque strumento di comunicazione rischia di risultare una sterile applicazione di tecniche, avulse dal contesto di riferimento.

Il programma del workshop prevede un’alternanza di fasi di approfondimento teorico e di esercitazioni, finalizzate a far acquisire consapevolezza del proprio stile di comunicazione e delle modalità attraverso cui ognuno di noi influenza gli altri. Più in generale, l’opportunità di approfondire questi temi ci aiuta a comprendere come l’attenzione ai comportamenti e l’ascolto attivo non appartengano solo alla sfera della sensibilità e del rispetto, ma siano anche la premessa indispensabile per un approccio strategico alla comunicazione. Abbandonata la visione statica o meramente informativa dell’interazione comunicativa, ci appare evidente la sua natura circolare e sistemica, nella quale il nostro comportamento, nel medesimo tempo, influenza e dipende dal comportamento dell’altro. Ogni tentativo di eludere questo livello di complessità porta a visioni riduttive e parziali di quanto avviene nell’interazione, impedendo, ancor prima di un atteggiamento etico, un approccio responsabile alla comunicazione.

Trasformare la cultura organizzativa per valorizzare l’intelligenza emotiva

Massimo Berlingozzi e Diego Ingrassia
Pubblicato su Persone & Conoscenze ESTE  –  febbraio/marzo 2018
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Lunedì 5 febbraio 2018 è stato un giorno nerissimo per la borsa di Wall Street, la peggior seduta dal 2011. L’indice Down Jones è arrivato a perdere il 6% per poi fermarsi al – 4,6, un calo analogo ha coinvolto anche tutte le borse asiatiche, le borse europee hanno reagito con maggior equilibrio denunciando comunque considerevoli perdite. Cosa è accaduto? A giudizio degli analisti le notizie dello storico accordo sindacale in Germania nella regione del Baden-Wurttemberg che prevede aumenti salariali del 4,3% per 900.00 lavoratori, che presto potrebbe essere esteso alla totalità dei 3,9 milioni di metalmeccanici tedeschi, insieme a notizie analoghe provenienti dagli Stati Uniti, hanno innescato una serie di automatismi comandati da algoritmi istruiti per reagire quando si modificano alcuni parametri legati all’indice di volatilità, provocando a cascata un’ondata di vendite sui mercati.

È sensato tutto questo? Sicuramente no. La notizia di aumenti salariali su larga scala è un’ottima notizia per l’economia reale, oltre a concorrere al benessere di molte famiglie, produce nel tempo un aumento dei consumi e quindi un vantaggio per i mercati. Perché quindi è potuto accadere questo? Mettiamo da parte considerazioni che potrebbero indurci a riflettere su quanto i meccanismi delle borse siano lontani dall’economia reale, estranee per altro al tema di questo articolo, e concentriamoci invece su un dato reale: il 66% dei miliardi di scambi che avvengono ogni giorno sulle borse mondiali è governato da algoritmi, macchine che decidono autonomamente. Un qualunque livello di controllo guidato da persone non avrebbe mai fatto accadere tutto questo: c’è ancora molto spazio per l’intelligenza umana! Ma quanto ne siamo consapevoli?

Quando l’intelligenza è potenza di calcolo non c’è partita tra l’intelligenza della macchina e quella umana, è noto che Deep Blue, un computer dell’IBM, nel1997 è riuscito a battere in una partita di scacchi Garry Kasparov. Ma la macchina non è consapevole di quello che fa, non ha coscienza, non ha emozioni: c’è qualcosa nell’intelligenza umana che non può essere ridotto a un algoritmo.

Contestualizzare gli elementi di senso di una decisione; garantire equilibrio emotivo e ragionevolezza nel processo decisionale; comprendere responsabilmente le conseguenze di una determinata scelta; essere capaci di fornire risposte anche di fronte a situazioni ambigue, tollerare l’incertezza; agire comunque, se necessario, anche in assenza di una procedura o di un programma; sono caratteristiche peculiari dell’intelligenza umana. Ma gli studi dedicati a comprendere questa intelligenza hanno una storia breve. Non bisogna avere molti anni, e forse le cose non sono molto diverse neppure oggi, per ricordare che durante gli anni della scuola l’intelligenza che contava era quella di tipo logico matematico. Per poi approdare nel mondo del lavoro e ricevere insegnamenti pronti a ricordarci di “lasciare le emozioni al di fuori”: una mente razionale, lucida e distaccata fornisce le migliori prestazioni.

Non dobbiamo dimenticare quindi che il cammino che ha portato a riconoscere le emozioni come una componente essenziale della nostra intelligenza è stato, almeno all’interno della nostra civiltà, lungo e difficile, e per quanto sia possibile individuare nell’opera di alcuni grandi filosofi, a partire da Aristotele, per arrivare al fondamentale saggio di Charles Darwin “The Expression of the Emotions in Man and Animals” contributi di enorme rilevanza, è solamente a partire dai lavori di Salovey e Mayer (1990) che il tema dell’intelligenza emotiva si impone nel dibattito scientifico.

Per molto tempo quindi l’unica intelligenza riconosciuta come tale è stata quella riconducibile al pensiero logico e razionale. Ancor oggi i test basati sul Q.I. (Quoziente di Intelligenza) sono ampiamente presenti nei test di ammissione a molte facoltà universitarie, così come esiste un club esclusivo (“Mensa”) la cui appartenenza è vincolata al superamento di una certa soglia “quantitativa” del Q.I. Eppure, la nostra intuizione avrebbe potuto da sola indicarci che un tale approccio risulta essere riduttivo, in quanto tutte le nostre decisioni sono influenzate dalle nostre emozioni e solo in un successivo momento tendiamo a spiegare le nostre scelte attraverso il pensiero razionale.

Dobbiamo agli studi di Paul Ekman, il massimo esperto della fisiologia delle emozioni, la dimostrazione che Darwin aveva ragione sull’origine biologica e adattiva delle emozioni, perché alcune di esse si manifestano sul volto degli esseri umani nel medesimo modo in tutte le culture del mondo. Aver scoperto questa matrice universale e la natura innata delle sette emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, disgusto, sorpresa, disprezzo) ci ha aiutato a comprendere in modo più approfondito la natura delle emozioni e la loro importanza, non solo nel corso dell’evoluzione della nostra specie, ma nella nostra vita di tutti i giorni.

 “Le emozioni accadono” afferma Paul Ekman, non possiamo sceglierle, le emozioni ci accompagnano nel corso della vita, si mescolano ai nostri pensieri per generare ricordi, colorano le nostre esperienze e quando non siamo soddisfatti della intensità emotiva a cui siamo esposti, guardiamo film, andiamo a teatro, leggiamo libri, frequentiamo persone che suscitano in noi emozioni. Ma per quanto siano importanti, ci ricorda Ekman, le conosciamo ancora molto poco.

L’intelligenza emotiva nei luoghi di lavoro

Come abbiamo visto è a partire dai lavori di Salovey e Mayer del 1990 che si anima il dibattito scientifico attorno all’intelligenza emotiva, ma in realtà è solo attraverso l’opera di divulgazione di Daniel Goleman, iniziata con il testo “Emotional Intelligence” del 1995, tradotto in Italia nel 1997, che questo tema comincia a riscuotere interesse anche al di fuori dell’ambiente accademico.

Chi segue il mondo della formazione può probabilmente retrodatare questo interesse a partire dall’inizio degli anni 90’, quando all’interno di organizzazioni che diventavano sempre più articolate e complesse, si è cominciato a sentire il bisogno di strumenti che potessero comprendere la performance lavorativa anche al di là della sua componente tecnico specialistica, e si sono adottati modelli basati sul concetto di Competenza e di Soft Skills, derivati dagli studi di David McClelland e portati in Italia da Piero Quaglino. Ma il merito degli studi dedicati all’intelligenza emotiva è di aver dato vita a un costrutto che sintetizza in modo efficace un insieme di qualità (conoscere le proprie e le altrui emozioni; saperle gestire; motivare sé stessi; saper utilizzare queste competenze nella relazione con gli altri), facilmente riconducibili a comportamenti efficaci.

Daniel Goleman riporta nei suoi libri numerosi esempi di successo da parte di persone emotivamente intelligenti, e sostiene che le persone che hanno queste caratteristiche si distinguono nel mondo del lavoro perché sono capaci di realizzare migliori performance.  In base alla nostra esperienza possiamo confermare queste osservazioni, le persone capaci di riconoscere, accettare e gestire in modo consapevole le proprie emozioni riescono a instaurare relazioni positive e sono capaci di affrontare meglio e con maggiore equilibrio le situazioni difficili.

Ma la nostra esperienza ci ha anche fatto incontrare manager di successo, ai vertici nelle loro organizzazioni, caratterizzati da un’intelligenza emotiva molto bassa. Poco attenti a quanto accade attorno a loro a livello relazionale e unicamente concentrati sugli obiettivi di business. Di fronte a queste situazioni è lecito chiedersi: è davvero indispensabile l’intelligenza emotiva?

Per rispondere a questa domanda bisogna aprire una breve riflessione sulla cultura organizzativa e sui modelli di leadership. I modelli culturali cambiano ma in genere cambiano molto lentamente. Oggi sempre meno persone sono disposte ad accettare di essere guidate attraverso metodi autoritari, è cambiata la società, sono cambiati i modelli educativi all’interno delle famiglie, abbiamo speso molte parole per far comprendere la differenza tra autoritarismo e autorevolezza, e possiamo dire che questo è un dato in larghissima misura compreso e condiviso. Ma quante persone amano ancora l’uomo forte al comando?

“L’uomo forte” (potrebbe anche non appartenere al genere maschile) non è per definizione autoritario, ma è deciso, sicuro, determinato, carismatico. Siamo di fronte a uno stereotipo poco in sintonia con l’accettazione delle proprie emozioni, culturalmente viste ancora come un segno di debolezza. Ma quando si cerca di cancellare questa componente, che non è possibile annullare data la sua natura biologica, non si fa altro che innescare un processo destinato lentamente a scoppiare. Aumenta la competizione interna, così come il livello di stress individuale e collettivo, insorgono conflitti che si cerca di sedare senza cercare di comprendere, altri reagiscono assumendo un atteggiamento rassegnato e remissivo. Alla fine, all’interno di un clima divenuto estraneo al riconoscimento personale e alla gratificazione, chi può se ne va.

È necessario allora promuovere un cambiamento della cultura organizzativa, se vogliamo immaginare gruppi di lavoro emotivamente intelligenti, e per fare questo dobbiamo essere capaci di generare modelli di confronto e di comunicazione più aperti e flessibili, dobbiamo rinunciare a facili scorciatoie ed essere disposti ad accettare maggiore complessità: alimentare l’ascolto, la fiducia reciproca e un clima di cooperazione.

Studi recenti sembrano confermare le ricerche condotte a Berkeley dallo psicologo Dacher Keltner che aveva coniato la definizione di “paradosso del potere”. Keltner aveva notato come nel tempo l’esercizio del potere tende a far perdere alle persone alcune delle doti che hanno consentito loro di ottenerlo. In particolare, aveva riscontrato una limitata capacità di entrare in sintonia con le persone con cui erano in relazione e di riuscire a comprendere cosa loro stessero provando. Queste intuizioni sono state confermate da Sukhvinder Obhi, un neuroscienziato della McMaster University in Ontario, che ha condotto una serie di esperimenti usando la tecnica della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), attraverso i quali ha potuto appurare che l’esposizione al potere danneggia il funzionamento di alcune strutture cerebrali, i neuroni a specchio, che come è noto sono alla base della nostra capacità empatica.

Questa breve riflessione sulla cultura della leadership ci aiuta a comprendere anche in una prospettiva più ampia qual è la sfida che la riflessione sul tema dell’intelligenza emotiva ha avviato all’interno del mondo del lavoro. Come abbiamo visto i modelli culturali nelle organizzazioni cambiano molto lentamente, la resistenza al cambiamento è un fenomeno ben conosciuto, le persone hanno bisogno di tempo per potersi adattare. Attorno a noi però c’è un mondo che cambia a una velocità impressionante: l’innovazione tecnologica, gli effetti della globalizzazione, l’immigrazione, una società sempre più complessa e multietnica, l’enorme quantità di informazioni da gestire, comunicazioni frenetiche sempre più disattente alla componente emotivo-relazionale.

Non possiamo certo trasformarci in luddisti del terzo millennio, anche perché ormai è tutto immateriale ciò che dovremmo distruggere. La “agilità emotiva”, come l’ha definita Susan David in un suo recente libro, è una qualità dell’intelligenza emotiva che ci può aiutare ad alleviare lo stress e a trovare nuove risorse coordinandoci con il nostro “cervello emotivo” proprio quando la nostra rigidità cognitiva rischia di farci cadere in trappola.

“Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce”, è un celebre aforisma di Blaise Pascal che riassume mirabilmente il ruolo e l’importanza dell’intelligenza emotiva con tre secoli di anticipo sui lavori di Salovey e Mayer.  Il contributo più importante degli studi sull’intelligenza emotiva forse è proprio questo: ricordarci che in questa sintesi tra cuore e ragione, che trova sempre più conferme in recenti acquisizioni delle moderne neuroscienze, risiede il valore più profondo dell’intelligenza umana.

Stress: una risposta efficace è possibile

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Harvard Business Review Italia  – dicembre 2017
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Nel 1936 Hans Selye, un giovane medico austriaco, stava conducendo alcuni esperimenti nel suo laboratorio di Montreal, durante i quali doveva iniettare nei topi liquidi di natura diversa. Le osservazioni relative alle reazioni fisiologiche degli animali lo portarono, in maniera del tutto indipendente dagli scopi originari della ricerca, a elaborare una teoria denominata “Sindrome generale da adattamento”. Quando decise di definire, sinteticamente, l’insieme di questi fenomeni con un termine fino ad allora utilizzato nello studio dei metalli, “stress”, non avrebbe mai potuto immaginare di aver coniato un concetto che nel giro di pochi anni sarebbe diventato l’emblema di un’epoca. Gli studi di Selye ebbero nel giro di pochi anni una grande risonanza, l’importanza del suo lavoro risiede nell’aver portato l’attenzione della ricerca sulla risposta adattiva di un organismo sottoposto all’influenza di fattori esterni. Interessante, da questo punto di vista, la definizione di Lazarus e Folkman (1984): “Lo stress è una transazione tra la persona e l’ambiente, nella quale la situazione è valutata dall’individuo come eccedente le proprie risorse e tale da mettere in pericolo il suo benessere”. E’ importante tuttavia aggiungere che non è possibile stabilire un criterio oggettivo per valutare il potenziale “stressante” di un certo stimolo ambientale, l’accento posto in questa direzione nei lavori di Folkman e Lazarus, sulla valutazione soggettiva dell’individuo, trova piena concordanza con le intuizioni pioneristiche di Selye, che spiegava: “Così, si può senz’altro affermare che lo stress non dipende tanto da ciò che facciamo o da ciò che ci accade, quanto dal modo in cui lo interpretiamo”. Ed è proprio su questa affermazione che è necessario soffermarsi, perché in essa è possibile individuare sia l’origine del problema che le possibili soluzioni. Il concetto di stress infatti è cosi connaturato con le abitudini e i ritmi del nostro tempo da sembrarci del tutto normale, e questa apparente normalità ci pone nella condizione del pesce che non s’interroga sull’acqua in cui nuota. Le condizioni lavorative odierne sono oggettivamente migliori rispetto al passato, le normative sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori, almeno nei paesi più avanzati, hanno dato un contribuito importante in questa direzione. Il lavoro rimane comunque la causa più importante di stress, ma le cause si sono spostate da un malessere determinato prevalentemente dal logoramento fisico a quello generato da tensioni accumulate nelle relazioni sociali. E’ a partire da queste considerazioni che assumono un significato preciso le nozioni di eustress (stress positivo) e distress (stress negativo). Non è difficile infatti constatare che attività estremamente gravose dal punto di vista fisico e mentale, come alcuni sport cosiddetti estremi, ma più semplicemente anche molte attrazioni presenti in popolarissimi parchi avventura, vengano liberamente scelte come forme di svago e divertimento. Mentre compiti infinitamente meno gravosi richiesti da normali attività lavorative possano determinare forme di disagio tali da richiedere le cure di un medico o di uno psicologo.

Risulta più facile a questo punto comprendere come la condizione di eustress sia determinata dalla consapevolezza di essere perfettamente in grado di governare la situazione mantenendo lucidità ed equilibrio. Questo tipo di risposta produce gratificazione e migliora l’autostima. I fattori che invece generano distress sono generati dell’essere costretti a subire una situazione percepita come negativa, non riuscire a organizzare una risposta efficace e pensare di non poter fare nulla per sottrarsi a questo disagio. Questa situazione produce logoramento fisico e mentale, senso di frustrazione e uno stato di malessere progressivamente crescente. La possibilità di gestire efficacemente situazioni potenzialmente stressanti è quindi strettamente legata alla capacità di produrre efficaci strategie di risposta.  Tali strategie definite di “Coping” comprendono l’insieme delle azioni, di tipo cognitivo e comportamentale, messe in atto intenzionalmente dal soggetto con lo scopo di “fronteggiare” l’impatto negativo dell’evento stressante. Un’attenta analisi delle diverse strategie di coping va oltre i limiti di questo articolo, è interessante tuttavia soffermarsi sugli aspetti principali che le caratterizzano per evidenziare come queste risposte siano il risultato di una lunga elaborazione dell’esperienza personale, e dunque intimamente legate alle caratteristiche individuali del soggetto. Il lavoro a partire da queste considerazioni può essere focalizzato sul problema, sulle emozioni che a esso sono collegate, oppure su specifiche attività mirate a ridurre la tensione generata dallo stress negativo. Infine è utile ricordare che non esiste una strategia di coping migliore di un’altra, l’esperienza ci insegna anzi che è l’interazione tra più strategie a poter fornire i risultati migliori. L’aspetto determinante è quindi la flessibilità, la capacità dinamica di cambiare quando necessario e di apprendere da nuove esperienze, e soprattutto: un atteggiamento positivo e di fiducia nelle proprie possibilità che porta ad agire, per sentirsi protagonisti e non soggetti passivi in balia degli eventi.

Etica della Comunicazione

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Leadership & Management Magazine  – dicembre 2017
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Compito dell’etica è interrogarsi riguardo al senso del nostro agire, e nell’era della comunicazione appare quanto mai importante interrogarsi intorno al senso del nostro agire comunicativo. Sono molti gli spunti da cui potremmo partire, ne scegliamo uno particolare, si tratta di un’affermazione di Philip K. Dick, noto autore di fantascienza: La realtà è solo un punto di vista, e lo strumento più potente per manipolarla è il controllo delle parole”, leggendo questa frase infatti è difficile non pensare al tema più importante che emerge da una riflessione sull’etica della comunicazione: la responsabilità. L’argomento è molto vasto, ma già da una prima ricerca è possibile cogliere una distinzione che diverse fonti sembrano tracciare fra la comunicazione che riguarda il mondo dei media: giornali, televisione, internet, pubblicità, e la comunicazione interpersonale. In realtà questa distinzione, che poteva avere senso fino a qualche anno fa, appare oggi quanto mai sfumata. L’avvento di internet (e in particolare quello dei Social Media) infatti ha mutato radicalmente il quadro della situazione. Oggi chiunque può facilmente pubblicare in rete opinioni, articoli, immagini, filmati, contenuti che ormai hanno superato il confine del “dilettantismo amatoriale”, prova ne è il fatto che sempre più spesso media tradizionali come TV e giornali rilanciano e amplificano queste fonti, che in alcuni casi possono arrivare anche sulle pagine di quotidiani di grande diffusione. Ma è accaduto qualcosa di ancor più significativo, che investe direttamente la dimensione della comunicazione interpersonale: le parole, che un tempo venivano scambiate nei salotti, nei caffè o agli angoli delle strade, si sono trasferite in larga misura sul web. E queste parole, sempre più diffusamente, alimentano monologhi più che dialoghi, racconti e presentazioni di sé che cominciano a essere definiti oggi, con maggiore e più lucida consapevolezza, “personal branding”. Nessun intento di demonizzare, beninteso, ma solo di analizzare un fenomeno che è indispensabile comprendere parlando di etica della comunicazione. Certo appaiono profetiche le parole di Andy Warhol che più di cinquant’anni fa aveva dichiarato: “Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”. Una cosa è certa, per comprendere quello che accade dobbiamo guardare alla comunicazione come a un fenomeno estremamente dinamico, ognuno di noi è coinvolto in un sistema complesso. La nozione di sistema impone di mutare la nostra percezione, la persona non può più definirsi “soggetto passivo”, mero “ricevente” di informazioni, noi siamo “attori”, influenzati dal contesto e nello stesso tempo potenzialmente capaci di influenzare il sistema.

 

Internet e la Netiquette

E’ interessante notare che la comunicazione in rete, fin dalle sue origini, ha sentito il bisogno di creare dei principi di buon comportamento definiti: “netiquette”, neologismo nato dalla fusione della parola inglese network con il termine francese étiquette. Quella approvata dalla Registration Authority Italiana è un insieme di regole e norme in larga parte orientati alla buona educazione e al buon senso, in alcune affermazioni tuttavia s’intravede il tentativo di definire un’etica della comunicazione in rete ispirandosi a valori comuni. Leggendo i vari punti non è difficile cogliere un invito alla riflessione che dovrebbe precedere qualunque intervento, il rispetto della privacy, l’importanza di essere chiari, accurati e precisi, oltre a specifiche indicazioni che dovrebbero guidare la gestione delle relazioni: il concetto di reciprocità, l’ascolto, la capacita di mediazione, per evitare guerre di opinione e atteggiamenti da “tifosi” divisi in opposte fazioni all’interno delle discussioni.

Sulle spalle dei giganti

Karl Otto Apel è considerato il padre degli studi sull’etica della comunicazione, il filosofo tedesco fonda la sua ricerca sulla necessità di costruire un’etica razionale universale. Il pensiero dell’uomo, afferma Apel, non può che essere mediato attraverso segni, per cui è essenziale condividere una lingua con altri uomini. Al pensiero è sempre connessa una pretesa intersoggettiva di senso: nessuno può usare un linguaggio e fare esperienza senza sottostare alle regole sociali della comunicazione. E’ necessaria quindi una teoria dei segni del linguaggio che sia la condizione iniziale e universale di ogni approccio alla realtà. La proposta di Apel assume a questo punto una precisa connotazione etica, poiché cerca di superare impedimenti legati a fattori psicologici, ideologici e sociali attraverso la costruzione di strumenti condivisi. Apel ritiene che ogni argomentazione implichi un insieme minimo di regole che identifica in quattro principi fondamentali, condivisi è già enunciati anche da Habermas:

  1. Una pretesa di senso (o comprensibilità): ogni persona nell’argomentare è obbligata a dare un significato che sia comprensibile tra i soggetti comunicanti
  2. Una pretesa di verità: un corretto rapporto semantico tra ciò che si afferma e la realtà
  3. Una pretesa di veridicità (o sincerità): chiunque argomenta in modo serio accetta di essere persuaso di ciò che dice
  4. Una pretesa di giustezza (o correttezza normativa): ogni persona che argomenta è tenuta a rispettare le norme della comunità, gruppo o contesto nel quale si trova

Aggiunge a queste regole il fatto che in una situazione ideale di comunicazione (rapporto di pariteticità con uguali diritti e doveri) dovrebbe essere sempre possibile arrivare a un accordo sul senso e sulla validità degli enunciati. Apel ritiene che queste regole, insieme alla norma etica fondamentale che richiama all’importanza di risolvere i possibili conflitti attraverso un confronto di tipo dialogico, permettano di costruire un’etica della comunicazione che sia razionale e universale. Un’etica che dovrebbe appartenere a una ideale società democratica composta da individui liberi e uguali, capaci di accordarsi tra loro in modo pacifico e razionale. Appare chiaro tuttavia che l’etica fondata su questi princìpi ha un carattere meramente formale, non entra nel merito dei contenuti e delle idee, si limita a identificare le condizioni formali necessarie per realizzare in modo pacifico, equilibrato e razionale la comunicazione.

Volendo attingere a una visione più ampia, attenta a individuare risvolti pragmatici legati ai comportamenti reali degli esseri umani e quindi, per definizione, anche alle componenti emotive che influenzano l’interazione comunicativa, si rivela particolarmente interessante il lavoro di due importanti autori che, da prospettive molto diverse, hanno dato un fondamentale contributo in questa direzione: Paul Watzlawick e Marshall McLuhan.

Paul Watzlawick nel libro “Pragmatica della comunicazione umana” traccia alcuni fondamentali concetti, definiti assiomi, alla base dell’interazione comunicativa. Il primo assioma afferma: “l’impossibilità di non-comunicare”, nella visione sistemica della comunicazione infatti qualunque comportamento, anche il silenzio, assume valore di comunicazione e quindi risulta impossibile non-comunicare. Le implicazioni etiche di questo assioma sono evidenti: ognuno di noi è chiamato ad essere maggiormente responsabile del proprio agire comunicativo dal momento che qualsiasi nostra parola, azione o comportamento sarà valutato come atto comunicativo. L’etica della responsabilità è fortemente presente nel pensiero di Watzlawick, il suo orientamento costruttivista esclude infatti l’idea di una visione “oggettiva” della realtà, che viene invece “costruita” attraverso il linguaggio e l’interazione comunicativa.

Tra i tanti contributi del sociologo canadese Marshall McLuhan è rimasta particolarmente famosa la frase: “il medium è il messaggio”, secondo la quale il vero messaggio di un mezzo di comunicazione consiste nel cambiamento di filtro che impone alla nostra percezione della realtà, mutando gli schemi, i tempi e gli spazi delle relazioni tra le persone. I “fatti” accadevano anche prima dell’invenzione del telegrafo, afferma McLuhan, ma il telegrafo li trasforma in “notizie” e li fa viaggiare a velocità prima inimmaginabili. Questo esempio rappresenta solo l’inizio, ma il mondo aveva già cominciato a comprimersi in quell’idea di “villaggio globale” che ha radicalmente trasformato il nostro modo di osservare la realtà che ci circonda. Oggi ognuno di noi ha la possibilità, attraverso differenti strumenti di comunicazione, di trasformare un fatto in “notizia”, ognuno di noi ha la possibilità quindi di costruire e immettere in rete una propria rappresentazione della realtà che andrà a influenzare i pensieri e le opinioni di altri. Se teniamo conto che, anche nella più limpida buona fede, il nostro sguardo non è mai neutro, le implicazioni etiche appaiono molto chiare: la conoscenza e la consapevolezza dei mezzi e dei linguaggi che utilizziamo è fondamentale. Su questo il pensiero di McLuhan è quanto mai chiaro: “La reazione convenzionale a tutti i media, secondo la quale ciò che conta è il modo in cui vengono usati, è l’opaca posizione dell’idiota tecnologico”

 

Parole chiave e linee guida

L’idea di responsabilità: deriva dalla consapevolezza della complessità del processo di comunicazione. Abbandonata la visione statica o meramente informativa, la visione sistemica dell’interazione comunicativa vede il soggetto all’interno di un modello circolare e ricorsivo caratterizzato da un vincolo d’interdipendenza: il nostro agire comunicativo influenza e dipende dall’agire comunicativo dell’altro. Ogni tentativo di eludere questo livello di complessità porta a visioni riduttive e parziali di quanto avviene nell’interazione, impedendo, ancor prima di un atteggiamento etico, un approccio responsabile alla comunicazione.

L’importanza dell’aspetto informativo: definire un obiettivo informativo, perseguirlo con linearità e chiarezza attraverso una precisa struttura argomentativa, attuare un controllo terminologico capace di contenere possibili errori e incomprensioni, costituiscono un insieme di elementi di grande importanza (indipendentemente dalle capacità individuali) per un approccio etico alla gestione dei flussi informativi.

Il valore dell’ascolto: molto si è detto sull’ascolto come “gesto” di attenzione e disponibilità nei confronti dell’altro, oltre alla sua importanza per una piena comprensione di quanto comunicato. Interrogandosi sui risvolti etici dell’ascolto è importante andare oltre una dimensione “formale”, quella osservabile dall’esterno, per esplorare una dimensione “interna”. L’ascolto diviene allora un esercizio capace di tracciare una distinzione tra comprendere e condividere, caratterizzato da un atteggiamento orientato a cercare di comprendere il “mondo dell’altro”. Ogni comportamento, infatti, visto dalla parte di chi lo produce ha un senso.

La dimensione relazionale: la comunicazione è un processo di relazione. La consapevolezza dell’importanza e del valore della relazione è una premessa indispensabile per un approccio sistemico alla comunicazione, orientato a valorizzare la dimensione intersoggettiva della “costruzione di senso”. Ma ciò che accade nella relazione è poco conosciuto, lo studio della “Pragmatica della Comunicazione” ci insegna che non è possibile parlare di responsabilità e di un approccio etico alla comunicazione in assenza di un’adeguata competenza e consapevolezza riguardo alla dinamica relazionale.

L’idea negoziale: accettare la complessità della comunicazione apre inevitabilmente alla possibilità di dover affrontare e risolvere conflitti. La negoziazione è l’unico meccanismo di coordinamento del confronto sociale capace di risolvere i conflitti creando valore, un “metodo” che la civiltà ha inventato per cercare di sostituire lo scontro fisico con le parole. Ma se vogliamo che questo avvenga è necessario condividere alcune regole e la principale è: il reciproco riconoscimento degli individui o dei gruppi coinvolti nel confronto negoziale, ciascuno dei quali è chiamato a rispettare la rappresentazione che l’altro fornisce della propria identità. In sintesi, si può non essere d’accordo con l’altro, è possibile non condividerne il pensiero e le idee, ma non possiamo mai negare all’altro il diritto di esprimersi e rappresentarsi per quello che pensa di sé.

La libertà individuale: non esiste idea di libertà che prescinda da un vincolo, da un sistema di relazioni a cui siamo in qualche modo legati.  Si è sempre liberi “rispetto a qualcosa” e non si è mai liberi rispetto a ciò che non si conosce. Il rischio quindi che l’etica della comunicazione venga vista come un insieme statico di norme, riguarda solo chi non abbia ancora compreso la natura complessa della comunicazione. Un approccio etico alla comunicazione può invece convivere con la massima libertà di espressione individuale, affinché questo sia possibile è però necessaria una profonda riflessione su questi temi che conduca a una maggiore competenza e consapevolezza.

 

 

 

Outdoor Training

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Leadership & Management Magazine  – ottobre 2017
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 “Caminante no hai camino, se hace camino al andar”
                                                          Antonio Machado

Molti autori concordano nell’affermare che l’essenza del pensiero creativo consiste nello scoprire inattese relazioni tra elementi già conosciuti ma considerati estranei tra loro. Non è difficile cogliere allora, in linea con questo principio, una profonda analogia tra i versi di Antonio Machado e le seguenti parole di Edward De Bono, forse l’autore più noto tra coloro che si sono dedicati allo studio del pensiero creativo:

Il pensiero verticale (logico-razionale) si mette in moto solamente se esiste una direzione in cui muoversi, il pensiero laterale (creativo) si mette in moto allo scopo di generare una direzione”.

La dimensione teorica e astratta del sapere è un’esperienza comune a molti di noi, l’abbiamo vissuta tra i banchi di scuola e nelle aule universitarie, sappiamo che richiede tempo e un impegno serio e costante ma alla fine il traguardo è raggiungibile. Chi si occupa di formazione però ha sperimentato anche una dimensione diversa del processo di conoscenza, una condizione che passa attraverso la disponibilità a mettersi in gioco e a rielaborare la propria esperienza, e ha compreso quanto sia difficile condensare questo tipo di apprendimento sui libri o nelle aule di studio. La conoscenza profonda, quella destinata a lasciare un segno e a cambiare la nostra “visione del mondo”, nasce sempre da un conflitto: la spinta verso il nuovo, il tentativo di andare oltre ciò che siamo e la paura di abbandonare ciò che si ha. Non è mai facile accettare di cambiare prospettiva e mettersi in discussione partendo da una posizione acquisita e consolidata. Il tema del cambiamento è quindi intimamente legato all’apprendimento di conoscenze destinate a mutare in modo significativo il quadro della nostra esperienza. Chi opera nella formazione è consapevole quindi di dover affrontare timori, chiusure e resistenze, e che proprio da queste dovrà partire dal momento che esse rappresentano una parte importante dell’identità delle persone con le quali sta lavorando. Superare queste resistenze non è facile, ma l’obiettivo della strategia formativa è proprio quello di costruire le premesse affinché questo possa accadere, e le metodologie di apprendimento che partono dall’azione e dalle emozioni rappresentano la migliore opportunità in questo senso.

Outdoor Training: Outward Bound, la prima scuola

 “Esci al largo, fuori dalle acque sicure ma stagnanti del porto”, era il motto della prima scuola ufficiale di outdoor training nata nel 1941 in Galles. L’esplorazione, la scoperta, il rischio, il confronto con la natura selvaggia, erano gli ingredienti forti di un programma che ricercava in queste sfide le leve per formare il carattere, liberare potenzialità latenti e accrescere la fiducia in sé stessi e nei compagni. Da allora i metodi si sono raffinati ed evoluti attraverso nuove idee e il contributo di altre discipline. Le metafore si sono ampliate, l’outdoor training non è più solo avventura nell’ambiente, a volte è una sfida sul piano dell’intelligenza creativa o dei comportamenti organizzativi, ma l’idea di fondo che anima questa disciplina non è mutata. Lo spirito “esplorativo” che risuona nel motto originario rimane un’inalterata fonte d’ispirazione: le persone imparano più rapidamente quando vengono coinvolte emotivamente sul terreno concreto dell’azione, l’efficacia dell’apprendimento aumenta quanto più si riduce la distanza tra il pensiero e l’esperienza vissuta “sulla propria pelle”.

Progettare un intervento di Outdoor Training

L’outdoor training è una metodologia formativa coinvolgente e potenzialmente molto efficace. Abbiamo visto come l’esperienza diretta, la gestione dinamica delle relazioni all’interno del gruppo e il forte impatto emotivo, creino le premesse per attivare un processo di cambiamento che è alla base di ogni vera nuova conoscenza. La dimensione di “action learning” generata dagli interventi di outdoor training si presta bene a diverse finalità, ma si rivela particolarmente efficace per sviluppare competenze di teamwork, supportare i gruppi di lavoro in occasione di particolari situazioni di cambiamento, facilitare l’integrazione e la necessaria spinta motivazionale nella fase di costruzione di nuovi team. La progettazione di un intervento di outdoor training richiede tuttavia una seria riflessione su obiettivi e finalità. La facilità infatti con cui si riescono a creare attività suggestive e coinvolgenti potrebbe indurre a sottovalutare le difficoltà che spesso s’incontrano nel passare da un’attività a elevato impatto emotivo alla fase più “fredda” del debriefing, quando il gruppo di lavoro si deve impegnare nell’analisi e nella ricerca degli elementi di “trasferibilità”: analogie che consentono di creare un ponte tra la metafora dell’outdoor e l’organizzazione reale.  Abbandonare quindi i tradizionali ambiti della formazione, uscire dall’aula per “abitare un luogo” intenzionalmente decontestualizzato, impegnandosi nell’acquisizione di nuove abilità e nella risoluzione di problemi concreti attraverso il coinvolgimento reale di tutti, è indubbiamente una grande opportunità ma deve essere gestita in modo attento e consapevole. In sintesi: è abbastanza facile costruire attività coinvolgenti e suggestive, più difficile è riuscire a mettere in relazione questa esperienza, di forte impatto emotivo, con i temi d’interesse aziendale. Un ulteriore elemento da non sottovalutare è la scelta della tipologia di outdoor che più si adatta agli obiettivi dell’azienda committente. Valutare il significato profondo della metafora e la sua funzione di “approccio divergente” è molto importante. L’obiettivo è trovare il giusto equilibrio tra la componente destrutturata dell’attività, che deve riuscire a liberare risorse molto spesso totalmente inespresse nella normale routine lavorativa, e la possibilità di individuare analogie con la vita organizzativa, aspetto fondamentale per l’attività di osservazione e auto-osservazione che verrà in seguito elaborata durante l’attività di debriefing.

L’importanza dell’attività di osservazione e della fase di Debriefing

Il debriefing è la fase organizzata di recupero dell’esperienza. L’obiettivo principale di questo momento è la ripresa e l’elaborazione in gruppo degli eventi e dei temi emersi nel corso dell’attività. È una fase importante e delicata durante la quale l’attenzione viene focalizzata sui passaggi più critici che hanno segnato l’evoluzione del team, dalla sua formazione al raggiungimento dell’obiettivo. il trainer insieme al gruppo filtra e seleziona gli eventi accaduti, circoscrive fasi e momenti, “smonta” e analizza l’azione, con lo scopo di aiutare il gruppo a “dare senso” a quanto è accaduto. È una fase questa che deve essere evidentemente coordinata e armonizzata con gli obietti prefissati nell’intervento. Qualunque situazione può essere letta in molti modi, compito del trainer è facilitare le interpretazioni e le chiavi di lettura maggiormente in sintonia con gli obiettivi previsti. Questa fase richiede da parte del trainer grande flessibilità ma anche molta attenzione e sensibilità per non rischiare letture che potrebbero essere percepite come manipolative e strumentali. Vediamo in sintesi cosa è necessario affinché il debriefing si configuri come un evento organizzato, efficace e capace di rispondere a quanto sopra descritto:

  • È opportuno prevedere la creazione di strumenti ad hoc. Si deve predisporre quindi un format specifico per ogni tipologia di outdoor.
  • Il format non deve contenere domande troppo vaghe ma nemmeno così precise da indurre il sospetto di voler “pilotare” il risultato.
  • L’osservazione deve riguardare la descrizione di comportamenti e i fatti che li hanno generati, limitandosi tuttavia alla “pura descrizione”. Interpretazioni e commenti non appartengono a questa fase e devono essere coordinati dal trainer durante il debriefing.
  • L’osservazione deve prevedere anche aspetti di auto-osservazione.
  • La compilazione di queste schede dev’essere facilitata predisponendo brevi pause dedicate durante lo svolgimento delle varie attività, e opportunamente sollecitata da parte dei trainer per non rischiare carenza di materiale informativo in fase di debriefing.

Il ruolo del Trainer

Una breve nota in conclusione sulla figura del trainer: guida, specialista, consulente, esperto, insegnante, osservatore, animatore, motivatore, facilitatore, presenza attiva ma mai “ingombrante”, confuso nel gruppo durante l’attività e per questa ragione spesso percepito come un compagno più esperto. In ognuna delle figure elencate è possibile individuare il riflesso di un ruolo poliedrico che richiede evidentemente una elevata dose di flessibilità e che comunque deve saper agire capacità e competenze molto diverse durante la fase di “azione” rispetto alla conduzione del debriefing. Sintesi che a volte è possibile ottenere solo attraverso una adeguata composizione dello staff a guida dell’evento. La figura del facilitatore è comunque quella che più si adatta al ruolo che un buon trainer dovrebbe saper ricoprire nel corso di un outdoor. Il facilitatore stimola,  affianca, incoraggia, consapevole di agire in un contesto che favorisce i processi di cambiamento. Privilegia le domande alle risposte al fine di stimolare il processo di analisi e di esplorazione di un problema. Il facilitatore mette al centro la persona, la rete di relazioni, il gruppo, sostenuto dall’idea che non si debba aggiungere nulla, ma solo aiutare a far emergere ciò che è già presente all’interno di questo sistema.

 

 

La resistenza al cambiamento nelle organizzazioni

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Harvard Business Review Italia – Universo Consulenza – settembre 2017

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Molti anni fa Konrad Lorenz, il famoso etologo viennese premio Nobel per la medicina nel 1973, raccontò una storia molto interessante durante una sua conferenza. I protagonisti della storia sono due cani, il primo a spasso con il suo padrone, il secondo all’interno del giardino della villa dei suoi proprietari. Tutti i giorni, durante il rito quotidiano della passeggiata, i due cani si affrontavano, separati dalla recinzione, mostrando una fortissima aggressività. Fino a quando un giorno, nel bel mezzo della loro disputa, trovano il cancello aperto. E cosa fanno i due cani che finalmente potrebbero trasformare in azione l’aggressività così a lungo manifestata? Tornano indietro, fino a ritrovare la rete che li separa, e riprendono a fare quello che hanno sempre fatto.

La morale di questa storia, solo apparentemente paradossale, è molto chiara, e la riflessione che ne consegue davvero ricca di significato per le analogie con il comportamento degli individui e delle organizzazioni. Il fenomeno della resistenza al cambiamento affonda le sue radici nel meccanismo biologico dell’omeostasi: la capacità dei sistemi viventi (ma così si comportano anche le organizzazioni) di mantenere in equilibrio la loro struttura interna indipendentemente dalle perturbazioni ambientali. Ma cosa accade quando l’equilibrio interno si rivela non più funzionale a richieste di cambiamento più forti, o del tutto inaspettate, che arrivano dall’esterno?

E’ proprio in queste situazioni che la resistenza al cambiamento si manifesta attraverso comportamenti inefficaci e soluzioni paradossali: tentativi di mantenere inalterate le strategie di risposta consolidate, anche se oramai apertamente disfunzionali. Mutare schema, osservare le cose da un nuovo punto di vista, cambiare paradigma, sembra essere la vera difficoltà. Può essere utile, a titolo di esempio, ricordare la vicenda emblematica della Kodak. Fu un suo ingegnere (Steven Sasson) a creare nel 1975 il primo prototipo di apparecchio fotografico digitale, ma il board aziendale rifiutò quel progetto, perché rendeva inutile l’oggetto (la pellicola) che era all’origine della fortuna e del successo dell’azienda.  Nel 2012 la Kodak, un gigante dell’imprenditoria nordamericana, dichiara il fallimento.

Comprendere l’origine della resistenza è un passo molto importante per costruire una efficace strategia. A volte la resistenza è un problema di natura meramente cognitiva: una mancanza di flessibilità nell’affrontare schemi, modelli e procedure che si discostano da quanto conosciuto in precedenza. Sicuramente più complessa si presenta la situazione quando la resistenza è di natura emotivo-identitaria. In questi casi la difesa assume spesso una valenza conflittuale, perché il soggetto (individuo o gruppo) si sente minacciato sul piano dei valori, fino a vivere il cambiamento come l’abbandono completo degli scopi e delle motivazioni alla base della sua identità.

Gli studi sul cambiamento hanno evidenziato molto bene l’importanza e il valore della consapevolezza e la prima difficoltà risiede proprio in una corretta e lucida visione del problema. Proviamo quindi a indicare in successione i passi necessari per una efficace gestione di questi processi:

  1. Definire in modo chiaro la situazione: in questa fase l’utilizzo di uno strumento capace di restituire un’analisi precisa, dettagliata e condivisa (prevedendo il coinvolgimento di persone a più livelli dell’organizzazione) rappresenta un aiuto concreto per indicare le aree di miglioramento, evitando interpretazioni soggettive e distorsioni percettive
  2. Valutare le soluzioni sperimentate: alla prima fase di analisi deve seguire un percorso di consapevolezza teso a comprendere la natura delle resistenze che si sono manifestate, o che siamo in grado di prevedere, insieme alle eventuali tentate (e fallite) soluzioni.
  3. Definire il cambiamento che vogliamo realizzare: descrivere con precisione dove vogliamo arrivare
  4. Stabilire un piano per realizzare il nostro obiettivo: una concreta definizione di mezzi, strumenti, risorse e tempi per realizzare il cambiamento desiderato

Le sfide del futuro ci chiederanno sempre più spesso di “cambiare pelle”, di modificare la nostra cultura organizzativa, di accogliere nuove esperienze, di acquisire nuove conoscenze. Se vogliamo avere al nostro fianco persone motivate a intraprendere questi cambiamenti, dobbiamo essere capaci di indicare con precisione dove siamo, dove vogliamo andare e il percorso necessario per arrivarci.

Come gestire lo Stress

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Leadership &Management Magazine  –  marzo 2017

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I primi veicoli a motore che solcarono le strade di Londra vennero accolti come una benedizione. Oltre a muoversi più velocemente delle vecchie carrozze, avrebbero presto contribuito a eliminare l’enorme quantità di letame che i cavalli rilasciavano sulle strade. In poche parole: era nato un mezzo pulito! La storia dell’evoluzione umana è molto complessa, non accetta risposte banali, e ci insegna che è molto difficile prevedere gli sviluppi di un fenomeno osservando solamente le sue fasi iniziali

Nel 1936 Hans Selye, un giovane medico austriaco, stava conducendo alcuni esperimenti nel suo laboratorio di Montreal, durante i quali doveva iniettare nei topi liquidi di natura diversa. Le osservazioni relative alle reazioni fisiologiche degli animali lo portarono, in maniera del tutto indipendente dagli scopi originari della ricerca, a elaborare una teoria denominata “Sindrome generale da adattamento”. Quando decise di definire, sinteticamente, l’insieme di questi fenomeni con un termine fino ad allora utilizzato nello studio dei metalli, “stress”, non avrebbe mai potuto immaginare di aver coniato un concetto che nel giro di pochi anni sarebbe diventato l’emblema di un’epoca. Un’epoca magistralmente rappresentata da una pellicola che uscì nelle sale cinematografiche in quello stesso 1936, “Tempi moderni”, nella quale il genio di Charlie Chaplin metteva in scena uno Charlot incapace di resistere ai ritmi della macchina nella catena di montaggio, fino ad essere risucchiato dai suoi ingranaggi.

Gli studi di Selye ebbero nel giro di pochi anni una grande risonanza, l’importanza del suo lavoro risiede nell’aver portato l’attenzione della ricerca sulla risposta adattiva di un organismo sottoposto all’influenza di fattori esterni. Interessante, da questo punto di vista, la definizione di Lazarus e Folkman (1984): “Lo stress è una transazione tra la persona e l’ambiente, nella quale la situazione è valutata dall’individuo come eccedente le proprie risorse e tale da mettere in pericolo il suo benessere”. 

Le condizioni lavorative odierne sono molto diverse dalla rappresentazione cinematografica di Chaplin in “Tempi moderni”, le normative sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori, almeno nei paesi più avanzati, hanno decisamente migliorato la situazione. Il lavoro rimane comunque la causa più importante di stress, ma le cause si sono spostate da un malessere determinato prevalentemente dal logoramento fisico a quello generato da tensioni accumulate nelle relazioni sociali. E’ importante tuttavia aggiungere che non è possibile stabilire un criterio oggettivo per valutare il potenziale “stressante” di un certo stimolo ambientale, l’accento posto in questa direzione nei lavori di Folkman e Lazarus, sulla valutazione soggettiva dell’individuo, trova piena concordanza con le intuizioni pioneristiche di Selye, che spiegava: “Così, si può senz’altro affermare che lo stress non dipende tanto da ciò che facciamo o da ciò che ci accade, quanto dal modo in cui lo interpretiamo”.

E’ a partire da queste considerazioni che assumono un significato preciso le nozioni di eustress (stress positivo) e distress (stress negativo). Non è difficile infatti constatare che attività estremamente gravose dal punto di vista fisico e mentale, come alcuni sport cosiddetti estremi, ma più semplicemente anche molte attrazioni presenti in popolarissimi parchi avventura, vengano liberamente scelte come forme di svago e divertimento. Mentre compiti infinitamente meno gravosi richiesti da normali attività lavorative possano determinare forme di disagio tali da richiedere le cure di un medico o di uno psicologo. Risulta più facile a questo punto comprendere cosa determina la condizione di eustress: la consapevolezza da parte della persona soggetta a un intenso stimolo ambientale (anche non scelto liberamente) di essere perfettamente in grado di governare la situazione mantenendo lucidità ed equilibrio. Questo tipo di risposta produce gratificazione e migliora l’autostima. I fattori che invece generano distress sono determinati dall’insieme di queste condizioni: essere costretti a subire una situazione percepita come negativa; non essere capaci di organizzare una risposta efficace; pensare di non poter fare nulla per sottrarsi a questo disagio. Questa situazione produce logoramento fisico e mentale, senso di frustrazione e uno stato di malessere progressivamente crescente.

La possibilità di gestire situazioni potenzialmente stressanti è quindi strettamente legata alla capacità di produrre efficaci strategie di risposta.  Tali strategie definite di “Coping” a partire dai lavori di Lazarus e Folkman, comprendono l’insieme delle azioni, di tipo cognitivo e comportamentale, messe in atto intenzionalmente dal soggetto con lo scopo di “fronteggiare” l’impatto negativo dell’evento stressante. Un’attenta analisi delle diverse strategie di coping va oltre i limiti di questo articolo, è interessante tuttavia soffermarsi sugli aspetti principali che le caratterizzano per evidenziare come queste risposte siano il risultato di una lunga elaborazione dell’esperienza personale, e dunque intimamente legate alle caratteristiche individuali del soggetto. Considerazione questa molto importante quando siamo chiamati ad affrontare questa tematica in ambito formativo o all’interno di una relazione di coaching. Schematicamente possiamo così suddividere le diverse strategie di coping:

Coping focalizzato sul problema: sono strategie che mirano a risolvere oppure modificare la situazione avvertita come minacciante. Nell’ambito di queste soluzioni è determinante l’apporto di tipo cognitivo, all’interno di una successione di fasi che possiamo riassumere in questo modo: attenta analisi della situazione; identificazione delle cause scatenanti; valutazione di alternative o possibili soluzioni; applicazione delle soluzioni individuate.

Coping centrato sulle emozioni: determinante in queste soluzioni l’apporto dell’intelligenza emotiva mirata al raggiungimento di un nuovo equilibrio. Il primo passaggio consiste nell’identificare e descrivere i comportamenti che mettiamo in atto per difenderci. Successivamente è importante comprendere il livello del nostro coinvolgimento emotivo e sviluppare consapevolezza rispetto alla natura delle nostre reazioni emotive, che possono rivelarsi efficaci oppure disfunzionali.

Coping centrato sulla ristrutturazione del problema: dal momento che lo stress, come abbiamo già visto, non dipende tanto da quanto accade ma da come noi interpretiamo la situazione, la ristrutturazione del problema consiste nel diventare capaci di attribuire un diverso significato alla situazione che ci procura disagio. La ristrutturazione è una tecnica molto raffinata ed efficace che richiede consapevolezza e un elevato grado di flessibilità mentale, ed è ovviamente più facile da realizzare attraverso un aiuto esterno.

Coping centrato sull’attività: in alcuni casi possono rivelarsi efficaci soluzioni che mirano a una riduzione della tensione generata dallo stress negativo attraverso la pratica di alcune attività sportive, esercizi specifici, oppure tecniche di rilassamento. Da alcuni anni ha preso piede la “Mindfulness”, una pratica meditativa di derivazione orientale adattata da Jon Kabat-Zinn, un professore di medicina della School of Medicine dell’Università del Massachussets, che nei primi anni 80’ ha sviluppato un protocollo: (MBSR) Mindfulness Based Stess Reduction, per introdurre la pratica della meditazione in contesti clinici.

Considerazioni finali:

In merito alla gestione attiva dello stress negli ultimi anni si è affermato un ulteriore concetto mutuato dallo studio dei materiali: la “resilienza”. Qualcuno individua le origini di questa parola nel termine latino, “resalio”, che indicava il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare. C’è una frase di Ernest Hemingway che rappresenta bene questo concetto:

“La vita ci spezza tutti, ma solo alcuni diventano più forti nei punti in cui si  sono spezzati”

Più prosaicamente possiamo dire che la persona resiliente è particolarmente capace nel mettere in atto efficaci strategie di coping, non si lascia mai sopraffare dagli eventi, affronta le avversità con motivazione e fiducia, convinto di poter trovare una soluzione. Infine è utile ricordare che non esiste una strategia di coping migliore di un’altra, l’esperienza ci insegna anzi che è l’interazione tra più strategie a poter fornire i risultati migliori. L’aspetto determinante è quindi la flessibilità, la capacità dinamica di cambiare quando necessario e di apprendere da nuove esperienze, e soprattutto: un atteggiamento positivo e di fiducia nelle proprie possibilità che porta ad agire, per sentirsi protagonisti e non soggetti passivi in balia degli eventi.

Bibliografia
Lazarus, R. S.; Folkman, S. (1984) Stress, appraisal and coping. New York – Springer Publishing Company
Pancheri, P. (1980) Stress, emozioni, malattia. Introduzione alla medicina psicosomatica.  Milano Ed. Mondatori

Il Bruco e la Farfalla

Massimo Berlingozzi e Diego Ingrassia
Pubblicato su: Psicologia Contemporanea n° 259 (Il Cambiamento) gen/feb 2017

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La resistenza al cambiamento è un fenomeno molto comune ed, entro certi limiti, del tutto normale, è importante tuttavia comprenderne pienamente il senso. La prima risposta ci arriva dalla biologia: i sistemi viventi hanno bisogno di creare una loro organizzazione interna indipendentemente dalle perturbazioni ambientali. Questo meccanismo, che prende il nome di omeostasi, ci permette di dialogare con l’ambiente mantenendo stabile l’equilibrio interno. Ma cosa accade quando l’equilibrio interno si rivela non più funzionale a richieste di cambiamento più forti, o del tutto inaspettate, che arrivano dall’ambiente?

E’ proprio in questi casi che la resistenza al cambiamento si manifesta attraverso comportamenti inefficaci e soluzioni paradossali. Il principale obiettivo di questo irrigidimento è il tentativo di mantenere inalterate le strategie di risposta consolidate, anche se oramai apertamente disfunzionali.

Per quale ragione accade tutto questo? Le ragioni sono molteplici: dall’obiettivo di risparmiare energia alla ricerca della soluzione apparentemente più semplice, per arrivare al rifiuto di modificare schemi, modelli e organizzazioni intimamente legati all’identità del soggetto in questione.

Il motivo per cui ci siamo espressi finora con termini volutamente neutri è perché queste considerazioni sono applicabili indifferentemente a esseri umani, gruppi, organizzazioni, sistemi complessi in genere. Il campionario di esempi sarebbe vastissimo, ma è necessario compiere un altro passo per cercare di essere più precisi.

Errori e comportamenti stereotipati

Potremmo sinteticamente riassumere il fenomeno della resistenza al cambiamento come il tentativo di applicare la medesima soluzione nonostante le circostanze esterne siano drasticamente mutate.  Ma in verità si cerca quasi sempre di fare qualcosa in più, e l’espressione “in più”, in questo caso, è quanto mai adeguata.

Quando la gestione del cambiamento diventa critica infatti, non assistiamo solo a una sostanziale incapacità di “mutare schema” nella ricerca di possibili alternative, la resistenza si manifesta anche attraverso il tentativo, del tutto sterile, di affrontare il problema mediante un aumento della forza che viene applicata alle vecchie soluzioni.

Chi studia il cambiamento sintetizza questo concetto con la frase “maggior dose dello stesso rimedio”. Sono molti gli esempi che possiamo fare: in campo medico (ma anche nella lotta ai parassiti in agricoltura) sono noti i limiti della possibilità di contrastare una malattia mediante la somministrazione di una certa sostanza, oltre una certa misura non è possibile continuare ad aumentare le dosi, pena procurare danni maggiori.

Questo concetto si applica benissimo anche in ambito tecnologico e nell’ingegneria costruttiva in genere, ma anche nel mondo delle organizzazioni, dei gruppi e delle aziende, dove, a fronte di cambiamenti ormai inevitabili, non sempre maggiori mezzi, più persone e più soldi garantiscono buoni risultati, quando non preludono a clamorosi fallimenti.

Mutare schema, osservare le cose da un nuovo punto di vista, cambiare paradigma, sembra essere la vera difficoltà:

io ti parlo e tu non mi capisci, lo ripeto ma ancora non comprendi quello che ti voglio dire, allora comincio ad alzare la voce, e poi urlo e mi agito, ma il risultato non cambia (“maggior dose dello stesso rimedio”).

Non c’è nessuna differenza, a livello concettuale, tra questo piccolissimo esempio di vita quotidiana e la vicenda emblematica di Steven Sasson, ingegnere elettronico della Kodak. Nel 1975 inventa la prima macchina fotografica digitale, la presenta al board aziendale, che tuttavia la rifiuta preferendo continuare a investire mezzi e risorse economiche nella tradizionale pellicola, creando così le premesse per il futuro fallimento.  (“maggior dose dello stesso rimedio”).

Le piccole esperienze di ogni giorno e i grandi sistemi si legano mirabilmente nel trasmetterci questa amara verità.

Strategie d’intervento

Abbiamo imparato che il cambiamento è un fenomeno complesso e delicato nel medesimo tempo, che la resistenza al cambiamento ha un significato molto umano, che questo fenomeno non si può aggredire con la forza. Il cambiamento resiste agli incrementi quantitativi, ci chiede di generare una qualità diversa. Il vero processo di cambiamento è determinato da un “salto logico”, dalla capacità di osservare il medesimo problema da una nuova prospettiva, da un diverso punto di vista. Il salto “a gambero” di Dick Fosbury alle olimpiadi di Città del Messico nel 1968, è una meravigliosa sintesi di quello che stiamo raccontando.

A questo punto però è d’obbligo porsi una domanda: dobbiamo rassegnarci a soluzioni geniali ed estemporanee, oppure è possibile costruire un modello pratico d’intervento? La natura del cambiamento è tale da rendere molto difficile la possibilità di concepire un “metodo” in grado di affrontare qualunque situazione. E’ possibile tuttavia identificare con precisione alcuni importanti passaggi capaci di creare le giuste premesse per la costruzione di una efficace strategia d’intervento. Proveremo a procedere in questo senso approfondendo alcuni fondamentali concetti:

Consapevolezza: per quanto apparentemente ovvio, ma non affatto scontato, un buon livello di consapevolezza è un elemento fondamentale per poter gestire efficacemente il processo di cambiamento. La prima difficoltà risiede in una corretta e lucida visione del problema, finalizzata a identificare con precisione e concretezza la posizione attuale e i passi necessari da intraprendere per attuare il cambiamento. A questa prima analisi, che potremmo definire abbastanza razionale, segue un percorso di consapevolezza teso a comprendere le resistenze che si sono manifestate, o che siamo in grado di prevedere, insieme alle eventuali tentate (e fallite) soluzioni.

E’ facile a questo punto comprendere (e l’esperienza ulteriormente ce lo conferma) che alcuni di questi passi rendono spesso indispensabile un aiuto esterno: coach, terapeuta, consulente, ecc., in relazione ai diversi contesti che possiamo immaginare.

Motivazione: una piena e sincera motivazione è il “carburante” indispensabile per affrontare un viaggio che in alcuni casi può rivelarsi lungo e faticoso. L’errore maggiormente commesso in questi casi è pensare di poter imporre il cambiamento. Senso, libertà e responsabilità, sono le parole che dovrebbero guidare la ricerca di una vera motivazione. Nessuno può sostituirsi a noi nel costruire la motivazione necessaria, per questa ragione è importante che il significato del nostro impegno non ci venga imposto. Ognuno deve ricercare il valore e il significato delle proprie azioni in piena libertà, attraverso una consapevole assunzione di responsabilità.

Natura della resistenza: comprendere la natura della resistenza è un passo molto importante per costruire una efficace strategia. A volte la resistenza è un problema di natura meramente cognitiva. Una mancanza di flessibilità da parte dei modelli interpretativi della realtà che dobbiamo affrontare. La migliore risorsa in queste situazioni è la creatività, ed esistono molte tecniche creative che possono rivelarsi di grande aiuto per questo scopo.

Sicuramente più complessa si presenta la situazione quando la resistenza è di natura emotivo-identitaria. In questi casi la difesa assume spesso una valenza conflittuale, perché il soggetto (individuo o gruppo) si sente minacciato sul piano dei valori, fino a vivere il cambiamento come l’abbandono completo degli scopi e delle motivazioni alla base della sua identità.

Ci vuole intelligenza e molta sensibilità per affrontare queste situazioni in chiave strategica, oltre a un grande rispetto per i comportamenti e le parole dei soggetti coinvolti, perché rappresentano il tentativo di preservare inalterata una identità faticosamente raggiunta.

Le tecniche più efficaci e insieme più eleganti in queste situazioni, sono le strategie psicologiche di “ristrutturazione del problema”, la cui trattazione va oltre i limiti di questo spazio, possiamo tuttavia fare cenno all’importante lavoro di Watzlawick, Weakland, Fisch, “Change”, pubblicato in Italia nel 1974, che raccolse un grande interesse tra gli operatori del settore.

All’interno di questo testo è possibile trovare un’ampia trattazione della “sottile arte della ristrutturazione”

E’ interessante anche citare i quattro passaggi che vengono identificati nella parte dedicata alla “pratica del cambiamento”:

  1. una chiara definizione del problema in termini concreti
  2. un’analisi della soluzione finora tentata
  3. una chiara definizione del cambiamento concreto da effettuare
  4. la formulazione e la messa in atto di un piano per provocare tale cambiamento

questo perché presenta molte analogie con gli argomenti che abbiamo trattato, e in particolare per una curiosa e interessante nota a margine che il libro riporta riguardo a questi quattro passaggi, dove si confida una sorta di involontario plagio delle quattro verità del Buddismo: della sofferenza; dell’origine della sofferenza; della cessazione della sofferenza; e del sentiero che porta alla cessazione della sofferenza. Passaggi che rispecchiano le fasi tipiche di un processo di coaching.

Dimensione aziendale

Nel mondo aziendale spesso quando le persone parlano di cambiamento, quasi mai pensano alla possibilità di apprendere. Il pensiero comune verte su un passaggio improvviso da uno stato conosciuto ad un nuovo assetto in una modalità quasi “magica” spesso attribuita ad un evento esterno.

Fin da piccoli sappiamo bene quanto tutti i traguardi che stiamo raggiungendo, come ad esempio imparare a parlare, a camminare o mangiare da soli siano frutto di un nostro impegno, di una fortissima motivazione e di una irriducibile tenacia che, facilitata dai rinforzi positivi di chi ci sta intorno, vince qualunque resistenza.

Una volta cresciuti questo sistema viene progressivamente sostituito da credenze secondo le quali “non è bene abbandonare la strada vecchia per imboccare la nuova”, “non sempre puoi fare quello che ti piace”, “team vincente non si cambia”, “per ottenere un buon risultato bisogna sudare”.

E’ vero che la delusione è inevitabile e per certi versi anche indispensabile nella nostra vita, ma se non elaborata correttamente rischia di farci vivere ciechi alla possibilità che qualcosa di nuovo possa veramente accadere. Desiderare il miglioramento senza intraprendere il cambiamento è come aspettarsi che una delusione si risolva senza avere una motivazione affinché questo accada ne un metodo per farlo accadere.

Nel mondo aziendale spesso accade che i manager si aspettino che i loro collaboratori aderiscano al cambiamento limitandosi a dire loro cosa fare. Ma chi di noi a scuola non avrebbe preferito che l’insegnante gli spiegasse come studiare anziché focalizzarsi solo su cosa studiare?

Spesso invece abbiamo dovuto procedere per tentativi e sperimentare più strategie che alcune volte ci hanno condotto a dei risultati, ma che ci hanno fatto anche perdere tempo ed energie. Fare formazione significa accedere ad un nuovo know how in cui qualcun altro ha già sperimentato più opzioni possibili e selezionato le metodologie più efficaci vagliate attraverso ricerche e studi di efficacia.

Anche il metodo migliore senza la motivazione di chi lo applica è nulla e così molto spesso nelle aziende ci chiedono: “ma i miei collaboratori sono motivati?”. Non possiamo basarci solo sulla presenza o meno della componente motivazionale, bensì dobbiamo ricercare quali leve motivazionali siano prevalenti nel nostro interlocutore e far leva su queste, stando ben attenti a non motivare gli altri secondo le nostre preferenze motivazionali.

Prendiamo il caso di Mario, un manager che raggiunge con successo gli obiettivi a lui assegnati senza preoccuparsi di garantire un clima aziendale sereno e privo di conflitti. Questo suo comportamento incide sulla qualità del lavoro e sul livello di soddisfazione delle persone con cui collabora. Le Risorse Umane inoltre devono occuparsi del forte malcontento dei suoi collaboratori che si concretizza in elevato turn over, assenteismo per malattie e rapporti con i sindacati sempre più complessi. Il suo responsabile pensa che un’attività di coaching possa supportarlo nel cambiamento necessario affinché migliori il rapporto con i suoi collaboratori e con i colleghi di altri reparti.

La consapevolezza del manager

Al primo incontro Mario si dimostra stupito di essere stato coinvolto in questa attività in quanto ritiene di essere tra i pochi manager che superano sempre il target assegnato, ma soprattutto che il suo reparto sia il più ambito in azienda quando si parla di job rotation.

Per fare in modo che Mario possa osservarsi con gli occhi dei suoi collaboratori decidiamo di sottoporlo ad una survey a 360 gradi mirata a valutare il suo stile di Leadership. Non ci stupisce che il feedback ricevuto si discosti molto dalla sua percezione. Analizzando gli elementi che più divergono rispetto alla sua autovalutazione, osserviamo rabbia e stupore quando affrontiamo il tema della sua comunicazione non verbale e dello stile che lo caratterizza. Paul Ekman definisce baseline lo stile comportamentale che contraddistingue la comunicazione di ognuno di noi in un dato contesto di riferimento. Possiamo averne o meno consapevolezza e con differenti livelli. Mario ad esempio sorride poco, è sempre accigliato, ha una postura rigida e evita contatti troppo personali all’interno dell’azienda. Il manager ritiene che i suoi comportamenti siano adeguati al ruolo che l’azienda gli ha assegnato e che l’importante sia il risultato che il suo reparto raggiunge sempre puntualmente. Inoltre ritiene che la natura dei rapporti aziendali debba essere diversa da quelli personali e che il comportamento che gli si richiede sia più di guida operativa e meno di comunicatore persuasivo.

Le motivazioni del manager

La natura di questo cambiamento è identitaria e la richiesta ha origine da parte di un responsabile che attribuisce un valore fondamentale al clima aziendale e a relazioni interne armoniche e di tipo cooperativo.

L’errore in buona fede commesso dal responsabile è quello di pensare che tutti i suoi collaboratori siano spinti dal suo stesso desiderio di armonia e di benessere (motivazione che, secondo Eduard Spranger nel suo Types of Man, caratterizza il “tipo estetico”) e far leva su questo tipo di motivazione per richiedere il cambiamento necessario.

La Motivazione può essere riconosciuta nei nostri interlocutori attraverso le parole che usano inconsapevolmente: esprimiamo infatti ciò che ci piace in modo spontaneo e lo comunichiamo  attraverso le parole e le emozioni che manifestiamo.

Dal colloquio con Mario evinciamo un forte desiderio di far carriera e di affermarsi nel contesto aziendale in posizioni di maggior responsabilità. Ci racconta di quanto si aspetti di ricevere il riconoscimento da parte dei suoi collaboratori per i risultati che sta ottenendo. La motivazione che guida le sue scelte è di tipo individualistico. Per far leva sulla sua motivazione prevalente scegliamo di analizzare con lui i comportamenti che hanno caratterizzato i manager che hanno fatto carriera nella sua azienda. Ne emerge un profilo che si distingue per una forte propensione al risultato ma sempre accompagnata da un’attenzione nei confronti delle persone con cui hanno collaborato. Il colloquio prosegue attraverso una comunicazione riconoscibile per Mario in quanto il coach utilizza un linguaggio che aderisce maggiormente al suo sistema di credenze e di valori. Il manager coglie ora una nuova opportunità nel modificare il suo comportamento e si attiva rapidamente alla ricerca di nuove modalità e alternative.

Le metodologie da applicare

Durante il percorso di coaching gli elementi analizzati hanno interessato principalmente l’intelligenza emotiva di Mario.

Sebbene il manager avesse colto l’importanza di essere maggiormente visibile all’interno dell’azienda non riusciva a individuare i maggiori ostacoli che si interponevano tra la sua comunicazione e le esigenze dei suoi collaboratori. Ignorava l’esistenza di metodologie che gli permettessero di leggere le emozioni del proprio interlocutore e poter quindi scegliere la strategia più consona per costruire relazioni empatiche, basate sulla fiducia e sul rispetto reciproco. Questi valori sono stati evidenziati dai suoi collaboratori come aree di miglioramento proprio in occasione dei risultati della survey 360. Acquisire un metodo ha permesso a Mario di avviare un processo di cambiamento che lo ha portato ad essere riconosciuto maggiormente come Leader e a far carriera nell’organizzazione. Adesso sarà importante per Mario consolidare questo nuovo comportamento in modo tale che diventi un suo “nuovo modo di essere”. Il metodo è fondamentale ma per raggiungere il miglioramento auspicato è importante integrare al proprio stile quanto appreso per farlo diventare una nuova buona abitudine. Questo cambiamento è stato riconosciuto da Mario come un valore aggiunto alle sue competenze di Leader. Sovviene il bell’aforisma di Lao Tzu che ha ispirato il titolo di questo articolo:  “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.

Bibliografia:
Watzlawick, P., Weakland, J. H., Fisch, R., & Ferretti, M. (1974). Change: sulla formazione e la soluzione dei problemi. Astrolabio.
Watzlawick, P. (1989). Il codino del barone di Munchhausen. Ovvero: psicoterapia e realtà.
Lorenz, K., & Popper, K. (1985). Il futuro è aperto. Rusconi, Milano.
Lorenz, K. (2014). E l’uomo incontrò il cane. Adelphi.
O’Sullivan, M., & Ekman, P. (2004). 12 The wizards of deception detection. The detection of deception in forensic contexts, 269.
Spranger, E., & Pigors, P. J. W. (1928). Types of Men the Psychology and Ethics of Personality.

Progetto Crisalide: la Gestione del Cambiamento

Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: “Dossier Progetto Crisalide: La Gestione del Cambiamento”
Bologna 8 Febbraio 2000

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L’idea di cambiamento ha rappresentato il centro dei nostri interessi all’interno del Progetto Crisalide. Fin dall’inizio ci è stato chiaro come affrontare una materia di questo genere non fosse facile. Una riflessione sul concetto di cambiamento ci pone di fronte a un tema estremamente ampio e complesso, tanto affascinante quanto difficile da cogliere nella sua essenza. Il concetto di cambiamento sembra resistere ai tentativi di comprimerlo in schemi troppo semplificati di riferimento, per questa ragione in fase di progettazione si è pensato di iniziare questo corso con un “laboratorio sul cambiamento”. La struttura di un laboratorio ci è sembrata la più efficace per trasmettere l’idea di ricerca e di esplorazione, proprio nel senso caro a Gregory  Bateson che affermava: “La scienza non prova, esplora”.  Il laboratorio ha visto la partecipazione di docenti, esperti in diversi campi, ed è stato realmente  un  grande contenitore di  idee  ed esperienze che si sono confrontate in modo libero, senza l’obbligo di dover affermare o dimostrare alcunché. Non è questa la sede per tentare una sintesi completa delle idee emerse in quell’occasione, alcune delle quali fra l’altro saranno oggetto di relazione, ma avendo svolto un ruolo di coordinamento all’interno del laboratorio, vorrei provare a riassumere alcuni concetti fondamentali emersi da quelle giornate di riflessione e considerarli come punti di partenza ai quali fare riferimento nello sviluppare ulteriori idee:

  • L’esperienza ci insegna che il cambiamento è un aspetto essenziale della nostra vita, senza cambiamento non è possibile concepire crescita, evoluzione, conoscenza.
  • Alcuni autori ci ricordano che, affinché potesse diventare oggetto di riflessione il concetto di cambiamento, i primi filosofi hanno dovuto precedentemente sviluppare l’idea di “invarianza” o “persistenza”. La percezione che le cose cambiano è infatti talmente connaturata con l’esperienza quotidiana che, per poterla “oggettivare”, è stato necessario contrapporla al concetto astratto di “non cambiamento”.
  • Le cose quindi cambiano continuamente, siamo noi che facciamo fatica ad accettarlo, perché il cambiamento spesso costituisce una minaccia alla ricerca di stabilità e di sicurezza.
  • Ci sono alcuni aspetti paradossali legati al cambiamento che da sempre attirano la nostra attenzione: di fronte al cambiamento, si sviluppa spesso una forte resistenza e, a volte, una vera e propria paura. Altro aspetto curioso è che a cambiamento avvenuto si ha spesso la sensazione che poco o nulla sia cambiato nelle cose, ma che il cambiamento riguardi più semplicemente il nostro modo di osservarle. Molti sono gli elementi raccolti a sostegno di queste
  • Dal momento che esistono paure e resistenze e che a volte quello che accade sfugge alla nostra capacità di comprensione, una riflessione superficiale sul cambiamento porta spesso ad una sua mitizzazione, che tende ad enfatizzare, a senso unico, solamente gli effetti positivi.
  • Un’idea che è emersa molto chiaramente all’interno del laboratorio, è che il concetto di cambiamento dovrebbe essere rappresentato da un modello complesso, all’interno del quale gli elementi cambiamento e persistenza (polarità del sistema) sono legati da un vincolo di interdipendenza. Ogni tentativo di scomporre ulteriormente questo modello, dividendolo in unità più semplici, porta ad attribuire al cambiamento significati difficilmente riscontrabili nella realtà.

È evidente che nelle affermazioni fatte finora quando parliamo di cambiamento ci occupiamo molto limitatamente dei cambiamenti – più “oggettivi” – che riguardano la realtà fisica, il mondo delle cose, e che guardiamo invece con maggior interesse ai cambiamenti legati al nostro modo di percepire  e  conoscere, a tutto quanto quindi va a formare relazioni, idee e rappresentazioni. La nostra visione del mondo.

Alla luce di queste premesse andiamo ora ad analizzare, liberamente, alcune delle parole chiave interpretate dal gruppo di lavoro come particolarmente rappresentative di questo percorso.

Conoscenza

                                                                                                                                                    Dov’è la saggezza che  abbiamo  perduto
                                                                                                                                                    nella  conoscenza,  dov’è  la  conoscenza
                                                                                                                                                   che  abbiamo  perduto nell’informazione?
                                                                                                                                                                                                          Tomas Eliot

La  conoscenza  nasce  sempre  da  un  conflitto. La  tensione tra il desiderio e il bisogno di conoscenza e la difficoltà di mutare, di evolvere,  partendo da una posizione di conoscenze acquisite e consolidate. Questo è il problema di tutte  le situazioni di cambiamento. La  spinta  verso il nuovo, il tentativo di andare oltre ciò che siamo e la paura di abbandonare ciò che si ha. Nel fare formazione,  quindi, dobbiamo mettere al centro del nostro lavoro l’idea di cambiamento, ma essere al contempo consapevoli che dovremo farci carico di chiusure, paure e  resistenze e che proprio da queste bisognerà partire, dal momento che esse rappresentano una parte importante dell’identità delle persone con le quali lavoriamo. Nessuno può spostare da solo queste resistenze. L’essenza del nostro lavoro è costruire le premesse  affinché  questo possa accadere.

La conoscenza nasce da un atto di distinzione. Dobbiamo agli studi di Piaget un’osservazione di fondamentale importanza: il bambino a partire da un periodo vicino agli otto mesi di età fa una scoperta  che determinerà l’inizio di un mutamento radicale nella sua percezione della realtà. Scopre che le cose esistono anche quando non sono in contatto con lui. Il bambino che fino a quel momento viveva in un universo chiuso in simbiosi con il corpo materno, si apre al mondo esterno. È un cambiamento straordinario  paragonabile, per l’individuo, a una sorta di rivoluzione Copernicana. La nascita del pensiero astratto. La possibilità del pensiero di pensare cose lontane, nel tempo e nello spazio; cose che non esistono, ma soprattutto la possibilità del pensiero di pensare sé stesso. A partire da questo momento l’apprendimento, l’acquisizione di conoscenza, sarà un processo inarrestabile, ma conoscere resterà sempre un atto di distinzione, tra la nostra visione del mondo (i nostri modelli cognitivi) e la realtà esterna (l’ambiente).

Conoscere è operare una distinzione tra il modello (l’organizzazione interna) e la realtà che sperimentiamo. Conoscere è cambiamento.  “La vita è un processo che cerca conoscenza”, afferma Karl Popper, ma  questa ricerca non è sempre facile, è un percorso disseminato di innumerevoli insidie e difficoltà, richiede energia, motivazione, flessibilità, risorse che abbiamo imparato, seppur con fatica, a considerare come non illimitate. Eppure, le sfide sono continue e la capacità di fornire risposte efficaci all’ambiente (esterno) sappiamo che è legata al livello di differenziazione interna (flessibilità): “Un sistema ha tante maggiori probabilità di interagire costruttivamente con l’ambiente quanto più è differenziata e diversificata la sua struttura interna.” (Piaget). Sappiamo anche che questi due aspetti, realtà interna e ambiente esterno, che spesso manteniamo distinti per semplicità o per la nostra incapacità concettuale, in realtà sono legati da un nesso di causalità complesso (circolare), già nella visione costruttivista di Piaget questo era ben presente quando scriveva “l’intelligenza organizza il mondo organizzando sé stessa”. Questa continua richiesta di flessibilità e di cambiamento, d’altra parte, rappresenta una costante minaccia alla nostra identità (vi ricordate Zelig?), alla nostra capacità di riconoscerci,  difficoltà che sempre incontriamo quando siamo impegnati nel tentativo di produrre conoscenza. Un aiuto ci arriva da Carl Rogers: “Ciascuno apprende in modo significativo solo le cose che percepisce come collegate alla conservazione o al rafforzamento, della struttura del se’”, preziose indicazioni a sostegno delle nostre strategie formative e didattiche.

A partire da queste premesse ci sembra utile ricordare come tutta la nostra esperienza, tutto il nostro lavoro come formatori, ci ha insegnato che l’apprendimento che parte dall’azione e dalle emozioni, rappresenta la migliore opportunità per il superamento di difficoltà e  resistenze.

 

Cambiamento

                                                                             “Continueremo a esplorare, e alla fine delle nostre esplorazioni ci troveremo 
                                                                                     al punto da  cui  siamo partiti e conosceremo il posto per la prima volta.”
                                                                                                                                                                                                     Tomas  Eliot

                                                                                                                                                                                                  All’inizio di questo progetto ci siamo chiesti in che modo e all’interno di quale ruolo, i partecipanti a questa azione formativa potessero essere coinvolti in un processo  di cambiamento. Questa domanda ha fatto emergere abbastanza chiaramente tre differenti livelli:

  1. Le persone coinvolte nell’azione formativa, indipendentemente dall’ambito di appartenenza: operatori, dirigenti di cooperative, rappresentanti di associazioni familiari ecc., possono assolvere una funzione di “agenti del cambiamento” nei confronti degli altri. Concorrere quindi a modificare l’idea di malattia mentale e di paziente psichiatrico all’esterno della loro struttura, in altri ambienti, organizzazioni o istituzioni e nell’opinione della gente in genere, ma anche all’interno dell’organizzazione di appartenenza.
  2. Possono essere loro stessi, nel corso del progetto formativo, oggetto di cambiamento attraverso il confronto e la capacità di mettersi in discussione.
  3. I partecipanti al corso, nell’ambito dei loro ruoli, possono esercitare una funzione in qualche modo “terapeutica” nei confronti dei loro assistiti.

Vorrei fare a questo riguardo alcune riflessioni sulla mia esperienza nel corso del  progetto con questo gruppo. Per quanto riguarda il primo punto, si tratta di operare probabilmente il più profondo dei cambiamenti: lo spostamento del punto di osservazione. Il cambiamento che ci porta a osservare le medesime cose in modo diverso. Umberto Galimberti sembra accogliere quest’idea quando in  Paesaggi dell’Anima afferma: “Si vuol sempre ricondurre i folli alla normalità, mai la normalità all’accettazione della follia”. Esercitare un ruolo nel concorrere a modificare l’idea di malattia mentale è dunque un obiettivo possibile, ma è necessario tener conto delle difficoltà. Si tratta non solo di affrontare i forti pregiudizi nei confronti dei “matti”, ma anche le enormi paure rispetto a un versante oscuro dell’esistenza con il quale la nostra cultura rifiuta di confrontarsi.  In questi casi, probabilmente, non solo è saggio ma anche  più strategico ritenersi soddisfatti di piccoli cambiamenti, in quanto generano minori paure e quindi sviluppano basse resistenze, e avere fiducia che questi, nel tempo, porteranno con gradualità a cambiamenti più stabili e profondi. Una politica dei piccoli passi quindi.

Il secondo punto affronta il cambiamento individuale. In questo caso sarebbe senz’altro più corretto chiedere un “bilancio” direttamente ai partecipanti. Ma è giusto ricordare come nell’intenzione del corso non ci fosse solamente l’idea di trasmettere contenuti e informazioni, ma si guardava anche, in modo convinto, a forme di apprendimento altamente coinvolgenti, che puntavano quindi a un cambiamento individuale. Su questo vorrei aprire una breve riflessione: mi è capitato di mettere a confronto questa esperienza con altri interventi di formazione, simili negli obiettivi, ma distanti rispetto al contesto, mi riferisco al mondo delle grandi aziende. All’interno di questo intervento formativo ho trovato molto più difficile e delicato utilizzare situazioni capaci di produrre coinvolgimenti ed emozioni. Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un patrimonio molto più ricco, un’intelligenza emotiva più diffusa e sviluppata si direbbe oggi, ma non facile da gestire. Probabilmente  chi  è  chiamato  professionalmente  a  mettersi  in  gioco, e risulta quindi fortemente coinvolto da questo punto di vista,  sviluppa dei sistemi di protezione alla “sovraesposizione” emotiva. Ci vorrebbero tempi più lunghi, ma soprattutto spazi diversi. Il “contenitore” di un grande corso multidisciplinare  non rappresenta la situazione più adatta.

L’ultimo aspetto, quello che fa riferimento al possibile ruolo terapeutico, ci riguarda meno da vicino, almeno come obiettivo formativo, ma ne abbiamo parlato durante il corso e, per quanto riguarda gli aspetti relativi alla comunicazione, qualcosa possiamo dire. Esercitare una funzione terapeutica può essere inteso in molti modi, ma chi è chiamato a farlo dovrebbe comunque avere ben chiaro in testa qual è il proprio ruolo. L’operatore (anch’io ho un passato come operatore sociale) all’interno di molti dei contesti presi in esame, è spesso animato da una forte carica di idealità. Questa spinta motivazionale è indubbiamente un aspetto molto importante, ma potrebbe non aiutare a compiere un’operazione fondamentale: “ruolo” e “competenze” si costruiscono anche attraverso una distanza che viene stabilita tra sé stessi e il ruolo. In questa direzione ha cercato di situarsi il nostro lavoro, mirato alla costruzione di competenze relazionali. Torneremo su questo punto parlando di comunicazione.

Comunicazione

                                                                                                                    “ …il mondo era così recente che molte cose erano prive
                                                                                                                          di nome e per citarle bisognava indicarle con il dito”
                                                                                                                                                                                 Gabriel Garcia Marquez
                                                                                                                                                                                                                                                                                             

Convivono all’interno della comunicazione due mondi, due lingue. La prima tratta segni astratti in modo strumentale costruendo significati “precisi” che sono basati su una convenzione. L’altra, legata ai simboli, prende origine dal mondo concreto del corpo e della sensazione e diventa comunicazione quando, rivolgendosi  all’esterno, inizia a costruire il linguaggio della relazione.  La straordinaria complessità della comunicazione umana va compresa a partire dall’interazione continua di queste due “lingue”, che parlano e interagiscono incessantemente. Una fissa concetti in modo preciso e logico, divide, distingue, oppone, categorizza, scompone. È la parte del linguaggio al servizio del pensiero che analizza e ordina, che immette rigore, chiarezza, e astrazione. L’altra è la parte analogica. Plastica e “generativa”, estremamente mobile e flessibile, unisce e con-fonde, fa convivere gli opposti, connota, da colore, calore, sensazione. Dalla sua mancanza di precisione emerge una grande flessibilità, ma al prezzo di una continua “fluttuazione di significato”.  Queste due lingue si intrecciano e si compenetrano, si integrano; difficile pensare alla comunicazione umana in assenza di una di queste due componenti. Da un lato avremmo un mondo senza emozioni, poesia e umorismo, un mondo nel quale sarebbe più difficile comunicare con i bambini e con il nostro cane, un mondo probabilmente più triste. Nel secondo caso abiteremmo un mondo  vago ed impreciso dove, come nella Macondo di Marquez, ci scopriremmo a indicare le cose con il dito. In questo mondo probabilmente non si sarebbe sviluppato un pensiero scientifico e una tecnologia, almeno come noi li conosciamo, sarebbe molto più complicato parlare con chi proviene da paesi lontani, e ci  troveremmo in difficoltà in tutte quelle situazioni nelle quali  per affermare qualcosa ne escludiamo un’altra. È per questa ragione che Popper può affermare:  “una teoria più esclude,  più dice”.

Oggi si ama spesso ricordare che la comunicazione è uno strumento e come tale è una competenza che può essere sviluppata ai fini di un utilizzo professionale. Questa affermazione è valida e si rivela anche estremamente utile, in quanto aiuta a immettere distanza e lucidità  nel nostro agire comunicativo. Ma nel lavoro con questo  gruppo è emerso chiaramente come, per chi opera a contatto con  persone che di fatto costituiscono una continua sfida al nostro pensiero e alle nostre menti ordinate, gettando profondi dubbi sulle nostre certezze, questa definizione risulti stretta. La parola-strumento  può certamente essere agita con lucidità e precisione, ma non quando il livello di coinvolgimento emotivo è troppo alto e i principali riferimenti vengono meno. A questo punto non è facile andare oltre, per questo mi piacerebbe introdurre nella riflessione  voci più autorevoli.

Parlavamo di due mondi, di due lingue. Edgar Morin nel suo libro La conoscenza della conoscenza  contrappone due categorie,  Analogico  e  Logico, che ci rimandano a quelle due lingue di cui prima parlavamo, e afferma: “L’eccesso analogico e l’atrofia logica portano al delirio, alla follia, alla perdita completa della distinzione, all’impossibilità di dare un senso; ma l’ipertrofia logica e l’atrofia analogica portano alla sterilità del pensiero, alla disincarnazione, alla rigidità astratta, al peggiore dogmatismo.” La prima parte di questa definizione mi ha ricordato una frase di R. Laing: “mistici e pazzi abitano lo stesso mare, ma i primi nuotano mentre gli altri annegano”, e tutto questo probabilmente già ci era noto.  Ma se gli effetti dell’eccesso analogico sono conosciuti e descritti da tempo (non dimentichiamo che su questo è nata una disciplina come la psichiatria), riflettendo  sulla seconda parte della frase, dall’interno di una cultura che spesso ha deificato la ragione, la logica, la razionalità, è utile soffermarsi ancora una volta  sul pensiero di Karl Popper che da  filosofo della scienza amava ricordare: “il razionalismo è la fede irrazionale nella razionalità”

Dobbiamo quindi avventurarci nel nostro cammino, come ci suggerisce Morin, “evitando l’eccessiva chiarezza, che uccide la verità, e l’eccessiva oscurità, che la rende invisibile”.

Complessità

 

                                                                                                                           “Dove  minaccia  il   pericolo, più forte si fa la salvezza”
                                                                                                                                                                                                                 Holderlin

Alla fine di questo percorso ci troviamo, come nel gioco delle pagliuzze, con in mano la parola più scomoda: complessità. È una parola che può spaventare, evoca problemi e minacce più che opportunità. Oppure rischia di diventare una parola passe-partout. Parola alla moda, svuotata del suo significato profondo, e insieme alle sue cugine “globalizzazione” e “flessibilità”,  esibita ogni qualvolta si vuole suscitare impressione. Io credo che dovremmo pensarla, prima di ogni altro significato,  come insieme di differenze. Un contesto, uno scenario, è complesso quando al suo interno, in una logica di interdipendenza, convivono e si relazionano, aspetti ed elementi diversi. E quindi differenza, diversità, in opposizione al pensiero riduzionista e semplificante che taglia e scompone. Come ci ha insegnato Bateson: “Infrangete la struttura che connette e distruggerete necessariamente ogni qualità”. Far convivere differenze rappresenta probabilmente il nostro futuro, sia per quanto riguarda la crescita individuale sia per quanto concerne la società e tutti i difficili processi di integrazione che sono sempre più di fronte ai nostri occhi. A volte è già  molto accorgersi che le differenze esistono e coabitano, poi ci accorgiamo anche delle enormi distanze. Non so se queste  distanze sono  più grandi di quelle del percorso indicato all’inizio da Umberto Galimberti, che porta verso l’accettazione della follia. Certo sono distanze enormi, implicano fatica, impegno, cambiamento. Tanta tolleranza. Lavoro per il terzo millennio.

Conoscenza, cambiamento, comunicazione, complessità, quattro  parole che iniziano con la lettera C, ne aggiungo un’altra che credo importante: “consapevolezza”.  Cosa ci raccontano insieme queste parole?  L’evoluzione, la crescita. Il cammino del cambiamento. Un percorso che, come  nei disegni di Escher,  torna sempre al punto di partenza, ma questo ritorno implica una nuova consapevolezza.  Tutto è  uguale,  eppure  ogni cosa ci appare sotto una luce diversa. Ed eccoci dunque qui,  alla fine del nostro percorso.

Sempre alla fine di un intervento formativo si fanno bilanci, monitoraggi, verifiche. Giustamente si cerca di capire che cosa ha prodotto un certo itinerario didattico, come sono stati recepiti determinati contenuti. Spesso sono i partecipanti stessi che ci raccontano che cosa si porteranno a casa o meno, a volte si parla esplicitamente di trasferibilità, spendibilità e così via.  Giusto, perfettamente giusto.  Abitiamo “l’età della tecnica” e nessuno di noi può esimersi dal dimostrare l’utilità e l’efficacia di qualcosa. Ma è importante ricordare che tra gli obiettivi che ci eravamo assegnati c’era anche il nostro cambiamento, e se il cambiamento è del tipo che abbiamo descritto, che cosa accade? Siamo probabilmente di nuovo fermi al punto di partenza, semplicemente osserviamo tutto in modo diverso. Come misurare tutto questo? Come non perdere complessità e qualità? Qui i nostri strumenti appaiono spuntati, e probabilmente non si pongono nemmeno la domanda giusta. Se è accaduto qualcosa di questo genere forse è utile chiudere in modo diverso. Vorrei allegare a questo testo un file del mio computer, che si chiama semplicemente “cambiamento”. Fa parte del materiale didattico che ho proposto nel corso del laboratorio. Sono parole raccolte in modo sparso, appartengono a differenti autori, a diverse culture, a periodi diversi della storia. Raccontano tutte la medesima cosa:

“ Continueremo a esplorare, e alla fine delle nostre esplorazioni ci troveremo al punto da cui siamo partiti e conosceremo il posto per la prima volta.”

                                                                                                                       Tomas Eliot

“ Prima di praticare lo Zen, le montagne mi sembravano montagne e i fiumi mi     sembravano fiumi.  Da quando pratico lo Zen,  vedo che i fiumi non sono più  fiumi e le montagne non sono più montagne. Ma da quando ho raggiunto l’illuminazione,  le montagne sono di nuovo montagne e i fiumi di nuovo fiumi”                   

                                                                                                                          Racconto  Zen

 

“Il giorno del giudizio, a ogni persona sarà permesso appendere tutta la sua infelicità su un ramo del grande Albero del Dolore. Dopo che ciascuno avrà trovato un ramo da cui  possano pendere le sue pene, tutti potranno camminare lentamente intorno all’albero.  Ciascuno dovrà cercare l’insieme di sofferenze che preferirebbe a quelle che lui stesso ha  appeso. Alla fine, ogni uomo sceglierà liberamente di riprendere il suo insieme personale di pene piuttosto che quelle di un altro. Ciascun uomo lascerà l’albero più saggio  di prima.”

                                                                                                                    Racconto Chassidico

“Se l’Es è il luogo dove l’Io deve ritornare per scoprire la matrice del proprio essere, per Lacan  non si dovrà tradurre l’aforisma freudiano: “Wo Es war, soll Ich werden” come solitamente lo si traduce: “là dove era l’Es, deve venire l’Io” ma “l’Io deve avvenire là dove era” ossia deve percorrere a ritroso il sentiero che porta all’inconscio.”

                                                                                    Da: “Parole Nomadi”  Umberto Galimberti