Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: “Dossier Progetto Crisalide: La Gestione del Cambiamento”
Bologna 8 Febbraio 2000
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L’idea di cambiamento ha rappresentato il centro dei nostri interessi all’interno del Progetto Crisalide. Fin dall’inizio ci è stato chiaro come affrontare una materia di questo genere non fosse facile. Una riflessione sul concetto di cambiamento ci pone di fronte a un tema estremamente ampio e complesso, tanto affascinante quanto difficile da cogliere nella sua essenza. Il concetto di cambiamento sembra resistere ai tentativi di comprimerlo in schemi troppo semplificati di riferimento, per questa ragione in fase di progettazione si è pensato di iniziare questo corso con un “laboratorio sul cambiamento”. La struttura di un laboratorio ci è sembrata la più efficace per trasmettere l’idea di ricerca e di esplorazione, proprio nel senso caro a Gregory Bateson che affermava: “La scienza non prova, esplora”. Il laboratorio ha visto la partecipazione di docenti, esperti in diversi campi, ed è stato realmente un grande contenitore di idee ed esperienze che si sono confrontate in modo libero, senza l’obbligo di dover affermare o dimostrare alcunché. Non è questa la sede per tentare una sintesi completa delle idee emerse in quell’occasione, alcune delle quali fra l’altro saranno oggetto di relazione, ma avendo svolto un ruolo di coordinamento all’interno del laboratorio, vorrei provare a riassumere alcuni concetti fondamentali emersi da quelle giornate di riflessione e considerarli come punti di partenza ai quali fare riferimento nello sviluppare ulteriori idee:
- L’esperienza ci insegna che il cambiamento è un aspetto essenziale della nostra vita, senza cambiamento non è possibile concepire crescita, evoluzione, conoscenza.
- Alcuni autori ci ricordano che, affinché potesse diventare oggetto di riflessione il concetto di cambiamento, i primi filosofi hanno dovuto precedentemente sviluppare l’idea di “invarianza” o “persistenza”. La percezione che le cose cambiano è infatti talmente connaturata con l’esperienza quotidiana che, per poterla “oggettivare”, è stato necessario contrapporla al concetto astratto di “non cambiamento”.
- Le cose quindi cambiano continuamente, siamo noi che facciamo fatica ad accettarlo, perché il cambiamento spesso costituisce una minaccia alla ricerca di stabilità e di sicurezza.
- Ci sono alcuni aspetti paradossali legati al cambiamento che da sempre attirano la nostra attenzione: di fronte al cambiamento, si sviluppa spesso una forte resistenza e, a volte, una vera e propria paura. Altro aspetto curioso è che a cambiamento avvenuto si ha spesso la sensazione che poco o nulla sia cambiato nelle cose, ma che il cambiamento riguardi più semplicemente il nostro modo di osservarle. Molti sono gli elementi raccolti a sostegno di queste
- Dal momento che esistono paure e resistenze e che a volte quello che accade sfugge alla nostra capacità di comprensione, una riflessione superficiale sul cambiamento porta spesso ad una sua mitizzazione, che tende ad enfatizzare, a senso unico, solamente gli effetti positivi.
- Un’idea che è emersa molto chiaramente all’interno del laboratorio, è che il concetto di cambiamento dovrebbe essere rappresentato da un modello complesso, all’interno del quale gli elementi cambiamento e persistenza (polarità del sistema) sono legati da un vincolo di interdipendenza. Ogni tentativo di scomporre ulteriormente questo modello, dividendolo in unità più semplici, porta ad attribuire al cambiamento significati difficilmente riscontrabili nella realtà.
È evidente che nelle affermazioni fatte finora quando parliamo di cambiamento ci occupiamo molto limitatamente dei cambiamenti – più “oggettivi” – che riguardano la realtà fisica, il mondo delle cose, e che guardiamo invece con maggior interesse ai cambiamenti legati al nostro modo di percepire e conoscere, a tutto quanto quindi va a formare relazioni, idee e rappresentazioni. La nostra visione del mondo.
Alla luce di queste premesse andiamo ora ad analizzare, liberamente, alcune delle parole chiave interpretate dal gruppo di lavoro come particolarmente rappresentative di questo percorso.
Conoscenza
Dov’è la saggezza che abbiamo perduto
nella conoscenza, dov’è la conoscenza
che abbiamo perduto nell’informazione?
Tomas Eliot
La conoscenza nasce sempre da un conflitto. La tensione tra il desiderio e il bisogno di conoscenza e la difficoltà di mutare, di evolvere, partendo da una posizione di conoscenze acquisite e consolidate. Questo è il problema di tutte le situazioni di cambiamento. La spinta verso il nuovo, il tentativo di andare oltre ciò che siamo e la paura di abbandonare ciò che si ha. Nel fare formazione, quindi, dobbiamo mettere al centro del nostro lavoro l’idea di cambiamento, ma essere al contempo consapevoli che dovremo farci carico di chiusure, paure e resistenze e che proprio da queste bisognerà partire, dal momento che esse rappresentano una parte importante dell’identità delle persone con le quali lavoriamo. Nessuno può spostare da solo queste resistenze. L’essenza del nostro lavoro è costruire le premesse affinché questo possa accadere.
La conoscenza nasce da un atto di distinzione. Dobbiamo agli studi di Piaget un’osservazione di fondamentale importanza: il bambino a partire da un periodo vicino agli otto mesi di età fa una scoperta che determinerà l’inizio di un mutamento radicale nella sua percezione della realtà. Scopre che le cose esistono anche quando non sono in contatto con lui. Il bambino che fino a quel momento viveva in un universo chiuso in simbiosi con il corpo materno, si apre al mondo esterno. È un cambiamento straordinario paragonabile, per l’individuo, a una sorta di rivoluzione Copernicana. La nascita del pensiero astratto. La possibilità del pensiero di pensare cose lontane, nel tempo e nello spazio; cose che non esistono, ma soprattutto la possibilità del pensiero di pensare sé stesso. A partire da questo momento l’apprendimento, l’acquisizione di conoscenza, sarà un processo inarrestabile, ma conoscere resterà sempre un atto di distinzione, tra la nostra visione del mondo (i nostri modelli cognitivi) e la realtà esterna (l’ambiente).
Conoscere è operare una distinzione tra il modello (l’organizzazione interna) e la realtà che sperimentiamo. Conoscere è cambiamento. “La vita è un processo che cerca conoscenza”, afferma Karl Popper, ma questa ricerca non è sempre facile, è un percorso disseminato di innumerevoli insidie e difficoltà, richiede energia, motivazione, flessibilità, risorse che abbiamo imparato, seppur con fatica, a considerare come non illimitate. Eppure, le sfide sono continue e la capacità di fornire risposte efficaci all’ambiente (esterno) sappiamo che è legata al livello di differenziazione interna (flessibilità): “Un sistema ha tante maggiori probabilità di interagire costruttivamente con l’ambiente quanto più è differenziata e diversificata la sua struttura interna.” (Piaget). Sappiamo anche che questi due aspetti, realtà interna e ambiente esterno, che spesso manteniamo distinti per semplicità o per la nostra incapacità concettuale, in realtà sono legati da un nesso di causalità complesso (circolare), già nella visione costruttivista di Piaget questo era ben presente quando scriveva “l’intelligenza organizza il mondo organizzando sé stessa”. Questa continua richiesta di flessibilità e di cambiamento, d’altra parte, rappresenta una costante minaccia alla nostra identità (vi ricordate Zelig?), alla nostra capacità di riconoscerci, difficoltà che sempre incontriamo quando siamo impegnati nel tentativo di produrre conoscenza. Un aiuto ci arriva da Carl Rogers: “Ciascuno apprende in modo significativo solo le cose che percepisce come collegate alla conservazione o al rafforzamento, della struttura del se’”, preziose indicazioni a sostegno delle nostre strategie formative e didattiche.
A partire da queste premesse ci sembra utile ricordare come tutta la nostra esperienza, tutto il nostro lavoro come formatori, ci ha insegnato che l’apprendimento che parte dall’azione e dalle emozioni, rappresenta la migliore opportunità per il superamento di difficoltà e resistenze.
Cambiamento
“Continueremo a esplorare, e alla fine delle nostre esplorazioni ci troveremo
al punto da cui siamo partiti e conosceremo il posto per la prima volta.”
Tomas Eliot
All’inizio di questo progetto ci siamo chiesti in che modo e all’interno di quale ruolo, i partecipanti a questa azione formativa potessero essere coinvolti in un processo di cambiamento. Questa domanda ha fatto emergere abbastanza chiaramente tre differenti livelli:
- Le persone coinvolte nell’azione formativa, indipendentemente dall’ambito di appartenenza: operatori, dirigenti di cooperative, rappresentanti di associazioni familiari ecc., possono assolvere una funzione di “agenti del cambiamento” nei confronti degli altri. Concorrere quindi a modificare l’idea di malattia mentale e di paziente psichiatrico all’esterno della loro struttura, in altri ambienti, organizzazioni o istituzioni e nell’opinione della gente in genere, ma anche all’interno dell’organizzazione di appartenenza.
- Possono essere loro stessi, nel corso del progetto formativo, oggetto di cambiamento attraverso il confronto e la capacità di mettersi in discussione.
- I partecipanti al corso, nell’ambito dei loro ruoli, possono esercitare una funzione in qualche modo “terapeutica” nei confronti dei loro assistiti.
Vorrei fare a questo riguardo alcune riflessioni sulla mia esperienza nel corso del progetto con questo gruppo. Per quanto riguarda il primo punto, si tratta di operare probabilmente il più profondo dei cambiamenti: lo spostamento del punto di osservazione. Il cambiamento che ci porta a osservare le medesime cose in modo diverso. Umberto Galimberti sembra accogliere quest’idea quando in Paesaggi dell’Anima afferma: “Si vuol sempre ricondurre i folli alla normalità, mai la normalità all’accettazione della follia”. Esercitare un ruolo nel concorrere a modificare l’idea di malattia mentale è dunque un obiettivo possibile, ma è necessario tener conto delle difficoltà. Si tratta non solo di affrontare i forti pregiudizi nei confronti dei “matti”, ma anche le enormi paure rispetto a un versante oscuro dell’esistenza con il quale la nostra cultura rifiuta di confrontarsi. In questi casi, probabilmente, non solo è saggio ma anche più strategico ritenersi soddisfatti di piccoli cambiamenti, in quanto generano minori paure e quindi sviluppano basse resistenze, e avere fiducia che questi, nel tempo, porteranno con gradualità a cambiamenti più stabili e profondi. Una politica dei piccoli passi quindi.
Il secondo punto affronta il cambiamento individuale. In questo caso sarebbe senz’altro più corretto chiedere un “bilancio” direttamente ai partecipanti. Ma è giusto ricordare come nell’intenzione del corso non ci fosse solamente l’idea di trasmettere contenuti e informazioni, ma si guardava anche, in modo convinto, a forme di apprendimento altamente coinvolgenti, che puntavano quindi a un cambiamento individuale. Su questo vorrei aprire una breve riflessione: mi è capitato di mettere a confronto questa esperienza con altri interventi di formazione, simili negli obiettivi, ma distanti rispetto al contesto, mi riferisco al mondo delle grandi aziende. All’interno di questo intervento formativo ho trovato molto più difficile e delicato utilizzare situazioni capaci di produrre coinvolgimenti ed emozioni. Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un patrimonio molto più ricco, un’intelligenza emotiva più diffusa e sviluppata si direbbe oggi, ma non facile da gestire. Probabilmente chi è chiamato professionalmente a mettersi in gioco, e risulta quindi fortemente coinvolto da questo punto di vista, sviluppa dei sistemi di protezione alla “sovraesposizione” emotiva. Ci vorrebbero tempi più lunghi, ma soprattutto spazi diversi. Il “contenitore” di un grande corso multidisciplinare non rappresenta la situazione più adatta.
L’ultimo aspetto, quello che fa riferimento al possibile ruolo terapeutico, ci riguarda meno da vicino, almeno come obiettivo formativo, ma ne abbiamo parlato durante il corso e, per quanto riguarda gli aspetti relativi alla comunicazione, qualcosa possiamo dire. Esercitare una funzione terapeutica può essere inteso in molti modi, ma chi è chiamato a farlo dovrebbe comunque avere ben chiaro in testa qual è il proprio ruolo. L’operatore (anch’io ho un passato come operatore sociale) all’interno di molti dei contesti presi in esame, è spesso animato da una forte carica di idealità. Questa spinta motivazionale è indubbiamente un aspetto molto importante, ma potrebbe non aiutare a compiere un’operazione fondamentale: “ruolo” e “competenze” si costruiscono anche attraverso una distanza che viene stabilita tra sé stessi e il ruolo. In questa direzione ha cercato di situarsi il nostro lavoro, mirato alla costruzione di competenze relazionali. Torneremo su questo punto parlando di comunicazione.
Comunicazione
“ …il mondo era così recente che molte cose erano prive
di nome e per citarle bisognava indicarle con il dito”
Gabriel Garcia Marquez
Convivono all’interno della comunicazione due mondi, due lingue. La prima tratta segni astratti in modo strumentale costruendo significati “precisi” che sono basati su una convenzione. L’altra, legata ai simboli, prende origine dal mondo concreto del corpo e della sensazione e diventa comunicazione quando, rivolgendosi all’esterno, inizia a costruire il linguaggio della relazione. La straordinaria complessità della comunicazione umana va compresa a partire dall’interazione continua di queste due “lingue”, che parlano e interagiscono incessantemente. Una fissa concetti in modo preciso e logico, divide, distingue, oppone, categorizza, scompone. È la parte del linguaggio al servizio del pensiero che analizza e ordina, che immette rigore, chiarezza, e astrazione. L’altra è la parte analogica. Plastica e “generativa”, estremamente mobile e flessibile, unisce e con-fonde, fa convivere gli opposti, connota, da colore, calore, sensazione. Dalla sua mancanza di precisione emerge una grande flessibilità, ma al prezzo di una continua “fluttuazione di significato”. Queste due lingue si intrecciano e si compenetrano, si integrano; difficile pensare alla comunicazione umana in assenza di una di queste due componenti. Da un lato avremmo un mondo senza emozioni, poesia e umorismo, un mondo nel quale sarebbe più difficile comunicare con i bambini e con il nostro cane, un mondo probabilmente più triste. Nel secondo caso abiteremmo un mondo vago ed impreciso dove, come nella Macondo di Marquez, ci scopriremmo a indicare le cose con il dito. In questo mondo probabilmente non si sarebbe sviluppato un pensiero scientifico e una tecnologia, almeno come noi li conosciamo, sarebbe molto più complicato parlare con chi proviene da paesi lontani, e ci troveremmo in difficoltà in tutte quelle situazioni nelle quali per affermare qualcosa ne escludiamo un’altra. È per questa ragione che Popper può affermare: “una teoria più esclude, più dice”.
Oggi si ama spesso ricordare che la comunicazione è uno strumento e come tale è una competenza che può essere sviluppata ai fini di un utilizzo professionale. Questa affermazione è valida e si rivela anche estremamente utile, in quanto aiuta a immettere distanza e lucidità nel nostro agire comunicativo. Ma nel lavoro con questo gruppo è emerso chiaramente come, per chi opera a contatto con persone che di fatto costituiscono una continua sfida al nostro pensiero e alle nostre menti ordinate, gettando profondi dubbi sulle nostre certezze, questa definizione risulti stretta. La parola-strumento può certamente essere agita con lucidità e precisione, ma non quando il livello di coinvolgimento emotivo è troppo alto e i principali riferimenti vengono meno. A questo punto non è facile andare oltre, per questo mi piacerebbe introdurre nella riflessione voci più autorevoli.
Parlavamo di due mondi, di due lingue. Edgar Morin nel suo libro La conoscenza della conoscenza contrappone due categorie, Analogico e Logico, che ci rimandano a quelle due lingue di cui prima parlavamo, e afferma: “L’eccesso analogico e l’atrofia logica portano al delirio, alla follia, alla perdita completa della distinzione, all’impossibilità di dare un senso; ma l’ipertrofia logica e l’atrofia analogica portano alla sterilità del pensiero, alla disincarnazione, alla rigidità astratta, al peggiore dogmatismo.” La prima parte di questa definizione mi ha ricordato una frase di R. Laing: “mistici e pazzi abitano lo stesso mare, ma i primi nuotano mentre gli altri annegano”, e tutto questo probabilmente già ci era noto. Ma se gli effetti dell’eccesso analogico sono conosciuti e descritti da tempo (non dimentichiamo che su questo è nata una disciplina come la psichiatria), riflettendo sulla seconda parte della frase, dall’interno di una cultura che spesso ha deificato la ragione, la logica, la razionalità, è utile soffermarsi ancora una volta sul pensiero di Karl Popper che da filosofo della scienza amava ricordare: “il razionalismo è la fede irrazionale nella razionalità”
Dobbiamo quindi avventurarci nel nostro cammino, come ci suggerisce Morin, “evitando l’eccessiva chiarezza, che uccide la verità, e l’eccessiva oscurità, che la rende invisibile”.
Complessità
“Dove minaccia il pericolo, più forte si fa la salvezza”
Holderlin
Alla fine di questo percorso ci troviamo, come nel gioco delle pagliuzze, con in mano la parola più scomoda: complessità. È una parola che può spaventare, evoca problemi e minacce più che opportunità. Oppure rischia di diventare una parola passe-partout. Parola alla moda, svuotata del suo significato profondo, e insieme alle sue cugine “globalizzazione” e “flessibilità”, esibita ogni qualvolta si vuole suscitare impressione. Io credo che dovremmo pensarla, prima di ogni altro significato, come insieme di differenze. Un contesto, uno scenario, è complesso quando al suo interno, in una logica di interdipendenza, convivono e si relazionano, aspetti ed elementi diversi. E quindi differenza, diversità, in opposizione al pensiero riduzionista e semplificante che taglia e scompone. Come ci ha insegnato Bateson: “Infrangete la struttura che connette e distruggerete necessariamente ogni qualità”. Far convivere differenze rappresenta probabilmente il nostro futuro, sia per quanto riguarda la crescita individuale sia per quanto concerne la società e tutti i difficili processi di integrazione che sono sempre più di fronte ai nostri occhi. A volte è già molto accorgersi che le differenze esistono e coabitano, poi ci accorgiamo anche delle enormi distanze. Non so se queste distanze sono più grandi di quelle del percorso indicato all’inizio da Umberto Galimberti, che porta verso l’accettazione della follia. Certo sono distanze enormi, implicano fatica, impegno, cambiamento. Tanta tolleranza. Lavoro per il terzo millennio.
Conoscenza, cambiamento, comunicazione, complessità, quattro parole che iniziano con la lettera C, ne aggiungo un’altra che credo importante: “consapevolezza”. Cosa ci raccontano insieme queste parole? L’evoluzione, la crescita. Il cammino del cambiamento. Un percorso che, come nei disegni di Escher, torna sempre al punto di partenza, ma questo ritorno implica una nuova consapevolezza. Tutto è uguale, eppure ogni cosa ci appare sotto una luce diversa. Ed eccoci dunque qui, alla fine del nostro percorso.
Sempre alla fine di un intervento formativo si fanno bilanci, monitoraggi, verifiche. Giustamente si cerca di capire che cosa ha prodotto un certo itinerario didattico, come sono stati recepiti determinati contenuti. Spesso sono i partecipanti stessi che ci raccontano che cosa si porteranno a casa o meno, a volte si parla esplicitamente di trasferibilità, spendibilità e così via. Giusto, perfettamente giusto. Abitiamo “l’età della tecnica” e nessuno di noi può esimersi dal dimostrare l’utilità e l’efficacia di qualcosa. Ma è importante ricordare che tra gli obiettivi che ci eravamo assegnati c’era anche il nostro cambiamento, e se il cambiamento è del tipo che abbiamo descritto, che cosa accade? Siamo probabilmente di nuovo fermi al punto di partenza, semplicemente osserviamo tutto in modo diverso. Come misurare tutto questo? Come non perdere complessità e qualità? Qui i nostri strumenti appaiono spuntati, e probabilmente non si pongono nemmeno la domanda giusta. Se è accaduto qualcosa di questo genere forse è utile chiudere in modo diverso. Vorrei allegare a questo testo un file del mio computer, che si chiama semplicemente “cambiamento”. Fa parte del materiale didattico che ho proposto nel corso del laboratorio. Sono parole raccolte in modo sparso, appartengono a differenti autori, a diverse culture, a periodi diversi della storia. Raccontano tutte la medesima cosa:
“ Continueremo a esplorare, e alla fine delle nostre esplorazioni ci troveremo al punto da cui siamo partiti e conosceremo il posto per la prima volta.”
Tomas Eliot
“ Prima di praticare lo Zen, le montagne mi sembravano montagne e i fiumi mi sembravano fiumi. Da quando pratico lo Zen, vedo che i fiumi non sono più fiumi e le montagne non sono più montagne. Ma da quando ho raggiunto l’illuminazione, le montagne sono di nuovo montagne e i fiumi di nuovo fiumi”
Racconto Zen
“Il giorno del giudizio, a ogni persona sarà permesso appendere tutta la sua infelicità su un ramo del grande Albero del Dolore. Dopo che ciascuno avrà trovato un ramo da cui possano pendere le sue pene, tutti potranno camminare lentamente intorno all’albero. Ciascuno dovrà cercare l’insieme di sofferenze che preferirebbe a quelle che lui stesso ha appeso. Alla fine, ogni uomo sceglierà liberamente di riprendere il suo insieme personale di pene piuttosto che quelle di un altro. Ciascun uomo lascerà l’albero più saggio di prima.”
Racconto Chassidico
“Se l’Es è il luogo dove l’Io deve ritornare per scoprire la matrice del proprio essere, per Lacan non si dovrà tradurre l’aforisma freudiano: “Wo Es war, soll Ich werden” come solitamente lo si traduce: “là dove era l’Es, deve venire l’Io” ma “l’Io deve avvenire là dove era” ossia deve percorrere a ritroso il sentiero che porta all’inconscio.”
Da: “Parole Nomadi” Umberto Galimberti