Massimo Berlingozzi: pubblicato su Psicologia Contemporanea n° 282 nov/dic 2020
Per molto tempo abbiamo creduto che le bugie avessero le “gambe corte” e che, per questa ragione, faticassero ad andare lontano. Almeno così ci insegnavano i nostri genitori. La verità invece, magari lentamente, arrivava sempre. Era una morale chiara, capace d’indicare ciò che era giusto, legata a una antica novella di Fedro di cui forse si era persa l’origine. A tutti invece era familiare il nome di Collodi e il suo Pinocchio: quel naso che si allungava quando diceva le bugie ci trasmetteva infatti la stessa morale.
Questa visione non rappresentava però tutta la verità. Qualche anno dopo, ma ancora sui banchi di scuola, un altro straordinario racconto ci avrebbe fatto conoscere l’uso astuto e strategico della menzogna. L’Odissea, il viaggio di Ulisse di ritorno dalla guerra di Troia, è costellato infatti di innumerevoli situazioni di questo tipo, a partire dallo stratagemma del Cavallo di Troia, fino alla fuga dalla dimora di Polifemo. Ma in un caso il tema della menzogna viene affrontato in modo esplicito, quando Ulisse, finalmente rientrato a Itaca, mente sulle sue origini raccontando a un pastorello di essere un cretese in fuga. Sotto le spoglie del giovane si cela in realtà la dea Atena sua protettrice che, dopo aver ascoltato il racconto, gli dice: “Sei un meraviglioso bugiardo, se non conoscessi la verità, ti avrei creduto!”
Da Omero a Collodi, la storia della menzogna sembra riuscire ad attraversare un arco di tempo che sfiora i tremila anni, senza perdere nulla della sua forza e del suo fascino. Un tempo durante il quale tuttavia, indipendentemente dai fatti, dai loro esiti e dalla morale conseguente, nessuno avrebbe mai pensato di infrangere il confine che separava la menzogna dalla verità. Confondere le acque non era consentito. Poteva esserci disaccordo nell’interpretazione dei fatti, certo, ma non nella definizione dei due grandi spartiacque, la verità stava da una parte, la menzogna dall’altra, e non vi erano dubbi riguardo a dove fosse giusto stare: “Non uscire da te stesso, rientra in te stesso: nell’intimo dell’uomo risiede la verità”, afferma Sant’Agostino.
Siamo certi di poter affermare oggi la stessa cosa, nell’era che qualcuno ha definito della post-verità? Credo che a molti questa definizione risulti ancora volutamente forzata o strumentale, eppure, limitandoci ai dati, basterebbe citare il serissimo Oxford Dictionary che elegge il termine post-truth come parola dell’anno nel 2016, per comprenderne l’importanza. Il suo primo uso risale al 1992, compare in un articolo scritto dal drammaturgo serbo-americano Steve Tesich sulla rivista The Nation, nel quale l’autore, analizzando le reazioni dell’opinione pubblica durante la prima guerra del Golfo, affermava: “abbiamo liberamente scelto di voler vivere in una specie di mondo post-verità”.
Lee McIntyre, ricercatore in filosofia e storia della scienza a Boston e autore di Post-Truth, recentemente tradotto anche in Italia, definisce la post-verità: “un contesto in cui l’ideologia ha la meglio sulla realtà perché quale sia la verità interessa poco o niente”. Ciò che distingue quindi il concetto di post-verità dalla menzogna è che nel primo caso chi mente cerca di convincere il suo interlocutore della veridicità di quanto dice, mentre nella post-verità questo diventa irrilevante. Creare disinformazione, attraverso fake news, risulta a questo punto una pratica efficace, perché chi le riceve preferisce credere, acriticamente, nelle cose che si accordano con le proprie opinioni.
Se ci si interroga sull’origine di questo fenomeno è importante cercare di comprenderne le sue caratteristiche peculiari, perché chiaramente la menzogna, come abbiamo visto, è antica quanto la storia dell’uomo e non solo, dal momento che gli etologi riconoscono questa capacità negli animali più evoluti, capaci di mettere in atto sofisticati trucchi per raggiungere i loro scopi. Di fake news si parla ormai da diversi anni, ma l’uso di questa espressione è diventato pratica comune nel linguaggio giornalistico dopo l’elezione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in occasione delle campagne di attacco verso i media a lui ostili. Altro dato importante da rilevare, la comparsa dei social media e la loro enorme e facile diffusione dopo l’avvento degli smartphone, che ha fatto assumere a questi fenomeni dimensioni fino a pochi anni fa difficilmente immaginabili.
La verità, un relitto del passato?
Fake news e post-verità sono evidentemente due concetti intimamente legati, e la loro caratteristica distintiva, rispetto all’idea di menzogna in quanto tale, è rappresentata dalla dimensione sociale del fenomeno e dalla sua diffusione nel mondo dei media. Ripensando dunque a quell’antico valore, sapientemente trasmesso dalla favola di Pinocchio, c’è da chiedersi se non ci troviamo di fronte a un mutamento dell’etica pubblica.
Marco Biffi, in un articolo dedicato questo tema pubblicato sul sito dell’Accademia della Crusca, si chiede, non senza una certa malizia, se la post-verità non si risolva nella “verità dei post”, facendo comprendere quanto il fenomeno dei social media abbia inciso in questi mutamenti. Il web è lo spazio virtuale che, attraverso le caratteristiche tipiche delle tecnologie digitali in fatto di facilità di accesso e di velocità di diffusione, ha reso possibile la nascita di un fenomeno pervasivo, di grande impatto sociale, e per sua natura difficilmente controllabile. Il cosiddetto fact-checking è l’antidoto che a partire dai primi anni duemila è nato per cercare di contrastare questo fenomeno, sono molti ormai i siti specializzati in questo tipo di attività, promossa anche da diverse testate giornalistiche. Si tratta di un’attività meritoria e importante che manifesta tuttavia anche evidenti limiti. Il primo è che richiede tempo e voglia da dedicare alla lettura dei dati e delle analisi da mettere a confronto. Si aggiunge a questo la naturale resistenza al cambiamento di chi privilegia una conferma, quasi sempre “emotivamente calda”, delle proprie opinioni, mentre le verifiche sono, per loro natura, più fredde e analitiche. Ma l’aspetto più difficile da contrastare è la “potenza di fuoco” delle false informazioni, diffusamente e spontaneamente rilanciate, verso cui il fact-checking è costretto sempre a inseguire. Contrariamente all’antica censura, la post-verità non nasconde, non taglia, adotta invece l’astuto stratagemma di “spegnere il fuoco aggiungendo la legna”. In sintesi, siamo molto più vicini al Il Mondo Nuovo di Huxley che a 1984 di Orwell.
Vicende molto note come quella dei 350 milioni di sterline alla settimana versati alla UE, stampati sulle fiancate degli autobus, che sarebbero potuti ritornare nelle casse del sistema sanitario nazionale britannico, oppure le insinuazioni che mettevano in dubbio la cittadinanza americana di Barack Obama, sono l’esempio di notizie false, potenzialmente perfettamente verificabili, ma che sono state capaci di influenzare la scelta di milioni di elettori, nel caso della Brexit e nell’elezione di Donald Trump.
Anche la recente pandemia da Covid19 ha messo in luce molti di questi aspetti, uno scenario dove proprio sul terreno dei social si sono riversate un fiume di informazioni non sempre facili da verificare, se si tiene conto dei dati pubblicati dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni secondo i quali su 16.000 nuovi domini internet registrati dedicati al Coronavirus, il 20% aveva finalità malevole. In questo caso anche gli interventi dei cosiddetti esperti non hanno sempre aiutato a fare chiarezza, alimentando opinioni contrastanti che hanno generato polemiche non ancora del tutto sopite. Aspetto comprensibile quando si confrontano opinioni diverse, non accettabile quando, per confermare le proprie tesi, si nascondono o si deformano i dati. Ma questo, probabilmente, è un male antico, se è vero che Hegel, informato della scoperta di un settimo pianeta dopo averne teorizzati sei, ebbe a dire: “se i fatti non coincidono con la teoria, tanto peggio per i fatti”.
L’idea di verità è dunque malata, e lo è da molto tempo? Probabilmente si, se pensiamo che solo un sistema ideologico forte è capace di garantirne la piena integrità. Ma quello a cui assistiamo oggi è qualcosa di diverso, una sorta di “evaporazione” del concetto di verità, un indebolimento della sua forza morale. La “rete”, nata in origine come luogo di libertà, di accesso alla piena informazione, di culla potenziale di una matura democrazia, ha con il tempo mutato le sue forme producendo effetti per molti versi inaspettati. Ormai si è compreso molto bene il ruolo degli algoritmi nel filtrare le informazioni (filter bubble), quello che si genera è un processo automatico che crea un mondo di idee che confermano i nostri gusti e i nostri preconcetti. Un mondo virtuale rassicurante e accogliente a sostegno della nostra visione del mondo. Vittima principale: il pensiero critico.
La valutazione della credibilità e l’importanza del pensiero critico
Se nel mondo delle informazioni la possibilità di scoprire la verità è affidata a un’attenta analisi e confronto di tutti i dati disponibili, sul piano dell’interazione personale scoprire le menzogne, o meglio, valutare la credibilità di un nostro interlocutore, è una competenza che può essere sviluppata acquisendo consapevolezza, a diversi livelli, della nostra capacità di osservazione e di ascolto. Anche perché gli esseri umani non si rivelano particolarmente abili nel riconoscere le menzogne, alcune ricerche hanno dimostrato che anche esperti agenti di polizia, quando basano la loro valutazione sull’osservazione del comportamento, sono in grado di smascherare un bugiardo solamente una volta su due, con percentuali quindi che non si discostano dall’affidarsi al caso.
La causa principale di questi scarsi risultati risiede nella mancanza di un metodo attendibile. Gli errori più comuni sono infatti da attribuire a una tecnica approssimativa nel porre le domande e nella ricerca di segnali a livello della comunicazione non verbale ritenuti inequivocabili: “se non ti guarda negli occhi allora mente”; “si lecca le labbra allora è in ansia”; “incrocia le braccia, è insicuro, vuole proteggersi da te”; ecc. Purtroppo, nella vita reale non esiste il “naso di Pinocchio”, nessun singolo gesto o segnale di comunicazione non verbale equivale a un significato preciso. Questo modo di procedere è metodologicamente sbagliato e rappresenta una delle principali cause di errore.
Una ulteriore indispensabile riflessione riguarda la filosofia di approccio del nostro ipotetico “cacciatore di menzogne”. Perché quando l’osservazione del comportamento si limita alla ricerca di quei segnali che confermerebbero che il nostro interlocutore sta mentendo, il rischio di esporsi al noto fenomeno dell’avverarsi della profezia diventa molto alto. La valutazione della credibilità non richiede solamente un metodo, che ora andremo brevemente a illustrare, ha bisogno di un atteggiamento di base caratterizzato da una mente aperta, che utilizza il pensiero critico come strumento a servizio della conoscenza, teso a comprendere una realtà che è, per sua natura, mutevole e complessa.
Attraverso gli studi di Paul Ekman è nata una metodologia scientifica a sostegno della valutazione della credibilità (ETaC, Evaluating Truthfulness and Credibility) che permette di analizzare con precisione i segnali provenienti da tutti i canali espressivi coinvolti. L’impiego di queste conoscenze trova spazio nel mondo giudiziario, nel campo della sicurezza e in ambito aziendale nelle attività di selezione del personale e in altre attività di tipo valutativo.
La tecnica in questione abbina l’uso di domande mirate all’osservazione di sei differenti canali:
- Le espressioni e le micro-espressioni facciali
- Il linguaggio del corpo (reazioni posturali, gesti, prossemica e aptica)
- I cambiamenti nella voce (timbro, frequenza, ritmo, ecc.)
- Lo stile verbale (pause, cambio di pronomi, modi di dire, “slang”, ecc.)
- Il contenuto verbale (resoconto narrativo dell’interlocutore)
- Il sistema nervoso autonomo (riflessi; reazioni neuro-fisiologiche; stati neuro-vegetativi)
La sola osservazione di questi sei canali, infatti, non fornisce ancora la prova che una persona sta mentendo. Oltre al confronto con lo stile naturale della persona è fondamentale considerare l’importanza delle domande, perché anche se siamo capaci di rilevare con precisione un cambiamento nel comportamento della persona o una determinata emozione, non potremo mai sapere perché questo avviene.
È importante, a questo riguardo, soffermarsi sulla definizione che Paul Ekman attribuisce al concetto di verità: “un tentativo sincero di fornire un’informazione accurata”. Una definizione che racchiude un presupposto di buona fede ma anche un elemento di incertezza legato al ruolo della memoria in questo processo. Eventi fortemente emotivi possono infatti produrre importanti alterazioni nel meccanismo della memoria. Conoscere come funziona la memoria risulta quindi determinante per svolgere efficacemente questa attività.
La memoria è importante anche perché nei racconti veri sono presenti dettagli in quantità adeguata riguardanti il cuore della storia, quello di massima intensità emotiva per il protagonista. I bugiardi, relativamente a questi aspetti, devono stare attenti a non contraddirsi con il linguaggio del corpo, devono ricordarsi delle loro bugie, devono gestire le emozioni che provano durante il loro racconto. Mentire è un processo cognitivo ed emotivo molto gravoso. Mentre si costruisce una storia plausibile, bisogna sopprimere la verità e cercare di anticipare le aspettative del nostro interlocutore. A causa di questa complessità cognitiva, le bugie tendono a essere brevi, poco genuine e non sviluppate nel dettaglio. I bugiardi inoltre provano emozioni, come la paura, il senso di colpa o addirittura il piacere, molto più intensamente di chi è sincero. Questi sentimenti sono troppo forti per essere soppressi completamente anche dal mentitore più esperto, che non sarà in grado di controllare tutti i sei canali della comunicazione contemporaneamente, soprattutto quando la posta in gioco è alta e le conseguenze della propria testimonianza sono gravose. Questi cambiamenti solitamente vengono attribuiti a tre processi principali: cambiamenti emotivi, carico cognitivo e controllo comportamentale. Ecco perché Ekman ci ricorda che “se qualcuno sta per mentire, ciò che importa è sapere cosa sta pensando e come si sta sentendo”.
Alla fine di questa esplorazione ai “confini della verità”, nel mondo dei nuovi media e delle relazioni personali, possiamo affermare che nulla si rivela più importante, nella sua ricerca, di uno sguardo aperto e disincantato, capace di osservare e raccogliere informazioni libero da pregiudizi e condizionamenti. Quello sguardo che in una delle più belle fiabe della storia dell’umanità, I vestiti nuovi dell’imperatore, fa dire a un fanciullo: “il Re è nudo!”