Massimo Berlingozzi
L’idea di “società liquida”, un mondo in cui tramonta il senso di comunità, segnato dall’indebolimento delle relazioni umane e dominato da un’unica costante, l’incertezza, è l’immagine che Zygmunt Bauman ci ha trasmesso per descrivere il mondo in cui viviamo. Ho ripensato spesso alla sua visione, durante questa sorta di gigantesco esperimento sociale prodotto dalla pandemia, che ha rinchiuso nelle proprie abitazioni metà dell’umanità, mostrando nello stesso tempo la fragilità di un sistema incapace di rallentare senza infliggersi ferite difficili da rimarginare. Essere moderni, affermava Bauman, “venne a significare, così come significa oggi, essere incapaci di fermarsi e ancor meno di restare fermi”
Ci troviamo oggi alla vigilia di un possibile grande mutamento nel mondo del lavoro, è uno scenario su cui molti si stanno interrogando. Alcuni processi di cambiamento, imposti dalla rivoluzione digitale, erano già da tempo in movimento, ma gli ultimi tre mesi, segnati dall’emergenza Covid19, hanno prodotto un’accelerazione che nessuno avrebbe potuto immaginare prima. L’osservatorio Smart Working del politecnico di Milano stimava in 570.000 gli smart worker in Italia a fine 2019, il lockdown ha fatto esplodere questi numeri portando questa cifra a qualche milione di lavoratori in remoto. Si, certo, sappiamo che smart e remote working sono situazioni molto diverse, ma sono molti a pensare che aver dimostrato sul campo la fattibilità del lavoro a distanza produrrà modificazioni permanenti nelle organizzazioni.
Il futuro ci sta dunque correndo incontro, anticipando cambiamenti, nel tempo probabilmente inevitabili, sui quali è comunque importante riflettere e prepararsi. Per molto tempo lavorare ha significato recarsi in un luogo preciso, uno spazio fisico, che rappresentava un ambiente sociale di aggregazione capace nel tempo di generare “senso di appartenenza” e “idea di comunità.” Tutto questo avveniva in un tempo definito, scandito da rituali precisi che separavano il tempo del lavoro da quello delle relazioni sociali – private e di comunità – quello che con l’avvento della modernità verrà definito: “tempo libero”. Ci si rende conto allora di essere di fronte a una svolta epocale, antropologica, che trasforma, dissolvendoli in larga parte, gli ancoraggi alla dimensione fisica del lavoro, quelli riferibili ai concetti di velocità, di spazio e di tempo. La dislocazione dei team in luoghi diversi, la destrutturazione dell’organizzazione temporale, il vorticoso aumento nella velocita dei sistemi di comunicazione, determinano un radicale mutamento delle relazioni tra le persone. La trasformazione di questi riferimenti, rimasti sostanzialmente immutati dall’inizio della rivoluzione industriale, genera spaesamento se non viene accompagnata da una diversa consapevolezza, fondata su nuove conoscenze e competenze.
Prima di procedere è tuttavia necessario sgombrare il campo da un possibile equivoco: non c’è nessuna nostalgia, nessun desiderio di ritorno a ipotetici tempi migliori, nel fare queste considerazioni, solo il desiderio di riflettere per comprendere quanto sta accadendo. Marshall McLuhan è stato probabilmente il primo a capire, sul finire degli anni 50’, che la diffusione delle tecnologie di comunicazione non determinava un semplice miglioramento tecnologico, ma l’origine di una rivoluzione mentale destinata a cambiare la rappresentazione e la visione del mondo di milioni di persone. L’inizio di quel processo che approderà alla rivoluzione digitale, definita da Luciano Floridi “quarta rivoluzione”, dopo quelle di Copernico, Darwin e Freud, che cambiarono per sempre, a loro volta, la visione del mondo degli abitanti di questo pianeta.
È evidente che le implicazioni di cambiamenti di questa portata sono molteplici, vorrei qui limitarmi a considerare solo alcuni aspetti che potrebbero modificare significativamente le relazioni tra le persone nei luoghi di lavoro già a partire dai prossimi mesi. E la frase che ho appena finito di scrivere rappresenta molto bene il cuore del problema. Mi spiego meglio, utilizzando parole che ognuno di noi percepisce come assolutamente normali, ho scritto: “le relazioni tra le persone nei luoghi di lavoro”, perché nella nostra testa quando pensiamo al lavoro, pensiamo a un ambiente fisico, uno spazio sociale condiviso, all’interno del quale si lavora. E come potremmo fare altrimenti, dal momento che tutta la nostra esperienza ci riporta a quell’immagine?
È di questi giorni la notizia che il 94% dei dipendenti della Pubblica Amministrazione desiderano proseguire lo smart working anche dopo le restrizioni dovute al Coronavirus, attualmente sono in smart working il 92,2% e per l’87,7% di loro si tratta di una novità assoluta. Altre indagini rivelano scenari simili in altri contesti. Come si fa, di fronte a certi numeri, a non pensare a una grande rivoluzione che sta per travolgere il mondo del lavoro? Per comprendere l’impatto di questa repentina digitalizzazione può essere utile tornare per un attimo a McLuhan e alla sua celebre affermazione “il medium è il messaggio”, che così spiegava: “Il vero messaggio di un mezzo di comunicazione è nel mutamento di proporzioni, di ritmo, di schemi che introduce nei rapporti umani”. E qual è questo mutamento di proporzioni e di schemi?
Due a mio avviso sono i cambiamenti principali rispetto ai quali è doveroso chiedersi, pena banalizzare il problema, quanto siamo pronti. Il primo riguarda gli smart worker. Le motivazioni che avevano portato ad aderire a questa tipologia di lavoro, nel periodo pre-Covid, vanno ricercate in una richiesta di maggiore libertà e di un miglior rapporto tra lavoro e vita privata, condizioni che coincidevano probabilmente con un forte senso di indipendenza e autonomia personale. Questa maggiore libertà individuale, insieme a una evidente comodità, credo siano alcune delle ragioni che hanno fatto apprezzare lo smart working in questo periodo. Uno sguardo più attento e preciso tuttavia non può non osservare come, insieme a questa spontanea adesione a una forma di lavoro più libera, devono essere sviluppate doti di self-management, auto-organizzazione, autonomia decisionale, capacità di definire un contesto (un framework di riferimento in un mondo dai confini più labili), orientamento agli obiettivi e una forte responsabilizzazione sui risultati. Ed è abbastanza evidente che a fronte di queste caratteristiche, in particolar modo se lo smart worker è un dipendente, devono essere ridefiniti i classici concetti di delega e controllo. Tutto così semplice per qualche milione di lavoratori dall’oggi al domani?
Il secondo cambiamento necessario è, a mio parere, ancora più difficile. Perché richiede quello che oggi siamo soliti definire, con quella leggerezza che spesso accompagna l’uso della terminologia inglese, “un cambio di mindset”, quando in realtà siamo di fronte a una trasformazione che sarebbe più corretto definire antropologica, o se volete, giocando un po’ con le parole, “biologica”, nel senso di quel meraviglioso aforisma di Lao Tzu: “quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”. Tutto ciò, ed è anche l’ultima cosa di cui ci occuperemo, riguarda l’idea di leadership.
Non è possibile parlare seriamente di leadership senza evocare il concetto di “potere” e con esso gli elementi simbolici attraverso cui siamo soliti immaginarlo. Ne esiste uno più forte, semplice e diretto di quello rappresentato dallo “spazio/territorio”? Da sempre il potere è stato caratterizzato dal dominio del territorio, chi ha più potere domina e controlla spazi più grandi, in tutte le forme che possiamo immaginare (abusare del tempo a disposizione in una riunione, ad esempio, viene percepito come spazio occupato a discapito di altri). Gli etologi ci hanno insegnato che sotto questo aspetto siamo territoriali come molte specie animali. Lo so che molti penseranno a Fantozzi, ma quella rappresentazione, per quanto caricaturale, raccontava in modo molto efficace situazioni assolutamente reali.
Immaginandoci dunque un team di lavoro in una situazione “ibrida”, con larga parte delle persone occupate prevalentemente in smart working, credo sia importante chiederci: saranno capaci i nostri manager ad operare con la medesima efficacia, privati di quell’infinità di interazioni relazionali quotidiane, e di tutte le possibili forme di controllo immediato, diretto, spesso “a vista”, dei loro collaboratori? (la paura della perdita di controllo è uno degli aspetti rilevati dalle indagini) Quanto del potere del loro ruolo è stato costruito su conoscenze e competenze, e quanto invece attraverso una dimensione più sotterranea, istintiva e inconsapevole della leadership, che poggiava su pilastri che si stanno piano piano dissolvendo? Sono domande forse scomode ma che richiedono un’attenta riflessione, perché immaginare questo scenario come una qualunque altra riorganizzazione è una semplificazione che può portare a grossi problemi.
La letteratura sulla leadership è molto vasta, uno sforzo che tuttavia non ha mai portato a una definizione universalmente condivisa, anche perché il limite maggiore risiede proprio nel tentativo di oggettivarla. Guardare la leadership “nella relazione” è quanto la visione sistemica della comunicazione ci ha insegnato, allora non è difficile cogliere in quel “one up” “one down”, che poi non è molto diverso dall’idea “io vinco, tu perdi”, l’aspetto culturalmente più difficile da superare. Abbiamo speso molte parole per far comprendere la differenza tra autoritarismo e autorevolezza, e questo a me pare in larga parte compreso e condiviso. Continuare in questa direzione significa chiedere oggi ai manager di essere capaci di ridefinire il loro stile di leadership: rinunciare ad alcuni dei classici privilegi legati al grado gerarchico, mettersi maggiormente in gioco nella relazione, accettare di scendere qualche gradino per dimostrarsi disponibili a “giocare in modo simmetrico”.
Nessuna forzatura o presunta ideologia in tutto questo, solo la consapevolezza delle inevitabili conseguenze di quanto accaduto nel mondo della comunicazione. La comunicazione non può prescindere dalle forme, e di fronte a modalità sempre più veloci, dirette, accessibili e informali, che hanno consentito di disintermediare molte delle relazioni nelle quali siamo quotidianamente coinvolti, sono cambiati i comportamenti che le persone mettono in atto negli scambi di comunicazione, incluso il rapporto con l’autorità.
Un genio del cinema, Charlie Chaplin, ha girato molti anni fa, nel film Il Grande Dittatore, una scena che sintetizza in modo magistrale quanto stiamo dicendo. I due dittatori, Adenoid Hynkel e Bonito Napoloni, si affrontano facendo sfoggio delle loro reciproche “grandezze”, giocando a chi si spinge più in alto su due particolari poltrone da barbiere. Vale la pena rivedere quella scena, perché riascoltando le sciocche parole che accompagnano la loro contesa, appare quanto mai chiara la strategia, esattamente contraria, a cui poco sopra abbiamo fatto cenno: concedere la simmetria sul piano della relazione e giocare la propria autorevolezza attraverso le parole.
Da molto tempo penso che questi ultimi aspetti analizzati rappresentino lo snodo più importante. Perché per quanto possa sembrare riduttivo, anni di esperienza mi hanno insegnato che è proprio la “paura di perdere” il vero freno a una comunicazione aperta ed evoluta. Ma voglio lasciar dire questo molto meglio, dalle le parole di uno dei miei più cari maestri:
“Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero? Che si può vincere insieme non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non esserne battuti? E che (cosa del tutto inconcepibile per lo scaltro giocatore a somma zero) si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, la vita? (Paul Watzlawick)