Massimo Berlingozzi e Diego Ingrassia
Pubblicato su Psicologia Contemporanea n° 274 luglio/agosto 2019
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In una famosa scena del film Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin, Adenoid Hynkel e Bonito Napoloni si affrontano facendo sfoggio delle loro reciproche “grandezze”. La sfida a chi vince, spingendosi più in alto, si svolge su due particolari poltrone da barbiere: una perfetta e geniale rappresentazione di una “escalation simmetrica”, nella quale i ruoli “One Up” e One Down” e le dinamiche all’origine della contesa ci appaiono quanto mai chiare.
Il genio di Chaplin anticipa, attraverso questa scena, quello che le teorie di Paul Watzlawick sulla pragmatica della comunicazione ci avrebbero spiegato trent’anni dopo: il vero conflitto è primariamente un conflitto di relazione, le parole svolgono un ruolo di supporto, raramente sono funzionali, e soprattutto risolutive, durante le prime fasi della disputa. È per questo motivo che Charlie Chaplin fa recitare ai suoi protagonisti frasi stupidissime, come avviene in molte liti alle quali abbiamo assistito nei talk show televisivi: quando scatta “l’escalation simmetrica” la qualità dei contenuti inevitabilmente si deteriora, perché è in atto una sfida, molto più antica, tra chi vince e chi perde.
Vincere o perdere
Il primo elemento da prendere in considerazione quando parliamo di gestione dei conflitti, e quindi di una loro possibile soluzione, è proprio questo: acquisire consapevolezza di quello che accade dentro di noi. È nella parte più antica del nostro cervello, infatti, che avviene qualcosa che è molto importante comprendere a fondo. L’innesco del conflitto determina una risposta automatica del nostro organismo definita “attacco o fuga”, nota in letteratura anche come “fight or flight response”, in onore del fisiologo statunitense Walter Bradford Cannon che per primo descrisse questo fenomeno. Questo meccanismo, come è noto, attiva una serie di mutamenti fisiologici finalizzati a determinare la massima efficacia di questi comportamenti. Ma L’aspetto che ci preme sottolineare in questa sede è come questi comportamenti, che hanno svolto un ruolo fondamentale nel corso dell’evoluzione per la sopravvivenza della nostra specie, assumano significati completamente diversi quando vengono inseriti nel contesto di una dinamica sociale.
Quello che cercheremo di dimostrare è che lasciarsi coinvolgere in una sfida al “si vince o si perde” non genera mai le migliori premesse per una risoluzione del conflitto. Risoluzione da intendersi sempre come: “trasformazione” del conflitto orientata al proseguimento della relazione. Perché chiaramente sia la fuga che l’attacco, nella loro essenza, non mirano a questo risultato. La possibilità di gestire strategicamente le dinamiche conflittuali parte dunque da questo primo elemento di consapevolezza, che aiuta anche a superare convinzioni e stereotipi, molto radicati e prevalentemente negativi, che da sempre accompagnano il tema dei conflitti.
L’illusione dell’inizio
Un secondo importante elemento di consapevolezza, che ancor più diverge dal senso comune, consiste nell’abbandonare l’illusione di poter stabilire con certezza l’origine del conflitto, per poter dimostrare chi ha ragione e chi ha torto. Fin da bambini ci hanno inculcato questo pensiero, sia genitori che insegnanti ci hanno indotto a rispondere alla domanda: “chi ha cominciato?”
La convinzione di poter definire con precisione l’evento iniziale di un conflitto, decade quando si comprende la natura sistemica e circolare dell’interazione comunicativa, la semplice frase: “non sono io che mi spiego male, sei tu che non capisci”, può evidentemente essere ribaltata da qualsiasi interlocutore che non condivide o non accetta questo punto di vista. Questo concetto, nella sua semplicità realmente “rivoluzionario” rispetto al pensiero comune, è ben spiegato da uno degli assiomi della Pragmatica della Comunicazione, definito: la “punteggiatura della sequenza di eventi”. Quello che accade, è che in genere i protagonisti di un conflitto non negano l’oggettiva realtà di una situazione – nel caso dell’esempio precedente: non riuscire a capirsi – ma si definiscono solamente “l’effetto”, perché la “causa”, il motivo per cui non si capiscono, dipende dall’altro. Se i due contendenti si irrigidiscono su questa posizione, e non sono disposti a cambiare la loro visione del conflitto, non si potrà che assistere a una ulteriore immissione di forza nel sistema (escalation simmetrica).
Lo schema descritto finora è, nella sua essenza, molto semplice e la sua natura è così radicata nel profondo del comportamento umano, da poterci permettere di paragonare il piccolo litigio tra due bambini con i grandi conflitti internazionali. Quando ai tempi della guerra fredda si parlava di “corsa agli armamenti”, nessuno dei due contendenti, USA e URSS, negava “l’oggettiva realtà della situazione”, se interpellati rispondevano: “è vero che stiamo aumentando i nostri armamenti, ma lo facciamo solo per ragioni difensive (l’effetto) perché gli altri hanno assunto posizioni minacciose e offensive (la causa) alle quali siamo costretti a rispondere. In sintesi, sia nelle piccole dispute, come nei grandi conflitti, ci troviamo di fronte a un deficit di consapevolezza dovuto alla difficoltà di accettare la natura indubbiamente complessa, e per certi versi contro-intuitiva, della comunicazione, che proprio nel conflitto rivela in modo quanto mai esplicito la sua natura sistemica (circolare e ricorsiva), che porta, attraverso il concetto di feedback, a superare la visione lineare causa-effetto, per approdare a uno scenario nel quale le persone coinvolte sono unite da un particolare legame: si influenzano e dipendono nel medesimo tempo.
Il legame di interdipendenza
Questo particolare legame, o vincolo di interdipendenza, diviene inevitabile quando i protagonisti di una disputa, per quanto in modo conflittuale, non sfuggono alla relazione, e possiamo esprimerlo in questo modo: il legame tra le parti è tale per cui l’obiettivo di ognuna può essere raggiunto solo attraverso l’altra. È quello che accade nelle negoziazioni, all’interno delle quali nessuna delle parti coinvolte dispone di tutto il potere, l’azione di ognuna delle parti in gioco influenza e dipende dall’azione dell’altra. Per questa ragione possiamo considerare questa particolare condizione, il “metodo negoziale”, quando viene formalmente accettato, come una tra le conquiste più alte della nostra civiltà. Chi negozia decide infatti di “abbandonare le armi” e di mettersi attorno a un tavolo a discutere, avendo fiducia di trovare una soluzione.
Affermare questo non significa certo sottovalutare l’intrinseca difficoltà del metodo. Per millenni gli esseri umani hanno risolto i loro confitti (e continuano a farlo) attraverso la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di sottomettersi (dipendere) solo se sconfitti. Per la nostra mente quindi è estremamente difficile fare coesistere queste due forme di relazione all’interno della medesima situazione: affermare e concedere; convincere e accettare; influenzare e dipendere.
La consapevolezza di questo limite della natura umana era ben chiara a un geniale pedagogista, Loris Malaguzzi, creatore a partire dagli anni 60’ di un modello di scuole per l’infanzia divenute molto note anche all’estero sotto il nome di “Reggio Emilia Approach”. Per affrontare questa difficoltà aveva ideato un gioco molto efficace: stendeva sul pavimento un grande foglio che conteneva la sagoma di un animale e chiedeva ai bambini di ricalcare il bordo di quella sagoma con una matita colorata a loro disposizione. La matita di ognuno di loro era però legata alle matite di tutti gli altri mediante una fitta ragnatela di sottili cordicelle. Ogni singolo bambino si accorgeva a questo punto che, in alcune fasi poteva avanzare e che in altri momenti invece era necessario fermarsi per far procedere qualcun altro, fino a quando, diminuita la tensione della corda, poteva nuovamente spingere in avanti la propria matita. Non era necessaria dunque nessuna elaborazione cognitiva, i bambini sperimentavano direttamente sul loro corpo, fisicamente, questo strano ossimoro: per poter avanzare devi fermarti.
L’aspetto più importante per risolvere i conflitti, per trasformarli in una dimensione, magari sofferta, ma intenzionalmente costruttiva, è rappresentato quindi da una profonda consapevolezza della dinamica relazionale che li caratterizza. Il passo successivo impone due scelte precise: opporsi alla logica del “si vince o si perde”, che rischia di trascinarci in una spirale regressiva (attacco/fuga), e abbandonare l’idea di potersi ricavare un vantaggio stabilendo la causa originaria del conflitto, perché all’interno di qualsiasi relazione continuativa chiunque è sempre capace di poter attingere a un “prima”, e quando questo non è possibile, come è realmente avvenuto in molte vicende umane, inventarlo.
La gestione delle emozioni
Quanto analizzato finora è stato utile a comprendere l’importanza fondamentale della consapevolezza ai fini di una efficace gestione delle situazioni conflittuali. Tuttavia, anche la migliore consapevolezza non può sottrarci dallo stress emotivo che può derivare da una dinamica conflittuale. L’argomento è estremamente vasto, ci limiteremo dunque in questa sede a tracciare le linee guida più importanti.
Anni di ricerca sullo stress convergono su un punto importante: non è possibile stabilire un criterio oggettivo per valutare il potenziale stressante di un certo stimolo ambientale. Lo stress emotivo, quindi, anche all’interno di una dinamica conflittuale, non dipende tanto da ciò che accade o da ciò che facciamo, quanto dal modo in cui lo interpretiamo. Ed è proprio su questo punto che è necessario riflettere, perché ci consente di individuare sia l’origine del problema che le possibili soluzioni. Quasi sempre la nostra incapacità di agire in modo flessibile all’interno di un conflitto, dipende da una mancanza di consapevolezza rispetto alle nostre dinamiche emotive e alle loro conseguenze. Limiti che si manifestano nella difficoltà di mettere in atto relazioni positive e nella scarsa capacità di gestire le emozioni, quali ad esempio la rabbia, la paura o il disprezzo per ciò che viene percepito come diverso o lontano da sé.
Riconoscere i fattori che scatenano l’emozione (trigger) che si sta vivendo, ci aiuta a individuare una strategia migliore rispetto a un comportamento abituale e poco consapevole. In questo modo possiamo prepararci a gestire meglio le nostre reazioni emotive traendone un grande vantaggio anche all’interno della dinamica relazionale.
Una semplice tecnica, che può essere di aiuto per sviluppare una migliore competenza emotiva, consiste nel redigere una lista di tutte le situazioni in cui una certa emozione ha avuto il sopravvento, attraverso un meccanismo di blocco che ci ha impedito di agire in modo efficace. Il passaggio successivo è cercare di abbinare, a quelle specifiche situazioni, il fattore (trigger) che ha scatenato la nostra reazione di blocco. L’esperienza ci ha insegnato che, se riusciamo a creare un elenco composto da almeno una decina di situazioni, ci accorgeremo che gli elementi scatenanti si possono in genere racchiudere in un paio di categorie molto simili tra loro. Comprendere l’origine delle nostre emozioni, essere consapevoli dei propri trigger, è un elemento fondamentale per migliorare la nostra capacità di gestire la componente emotiva all’interno di situazioni conflittuali.