Massimo Berlingozzi
Pubblicato su: Harvard Business Review Italia – novembre 2018
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“Words before blows” è una battuta tratta dal “Giulio Cesare” di Shakespeare. “Le parole prima dei colpi”. La negoziazione, nella sua essenza, è questo: uno strumento, antico quanto la civiltà umana, creato per prevenire, o far cessare, la guerra attraverso le parole. È chiaro che il più delle volte, per fortuna, la parola “guerra” va intesa in senso lato, come conflitto, disputa, contesa. La negoziazione è anche un’arte molto complessa. La parola arte non è scelta a caso per definire un’attività umana sulla quale sono stati scritti centinaia di libri, che hanno cercato ispirazione e risposte attraverso discipline anche molto diverse tra loro: psicologia, antropologia, sociologia, economia, scienze della politica e filosofia. Senza dimenticare che, caso unico nell’ambito delle relazioni umane, gli studi sulla negoziazione hanno potuto beneficiare di una trasposizione formale nel linguaggio matematico della “Teoria dei giochi” (Von Neumann e Morgenstern 1944).
Ma l’arte della negoziazione soffre di un male antico, che ha le sue radici proprio nella guerra. C’è una famosa scena in “Gioventù bruciata”, il film del 1955 che ha consacrato il mito di James Dean, nella quale due giovani si sfidano nel “chicken game”. Una gara tra due auto lanciate a forte velocità, per vedere chi avrà il coraggio di gettarsi fuori dall’abitacolo per ultimo, prima che l’auto precipiti nello strapiombo. L’esito della pericolosa sfida è stabilire in modo inequivocabile, chi vince (colui che si lancia dopo) e chi perde: “il pollo” (colui che si lancia prima). Il significato metaforico del gioco è fin troppo chiaro: alzare il livello della sfida restringe le possibilità del confronto, fino a indirizzarle in un vicolo cieco nel quale alla fine non si potrà che stabilire chi ha vinto e chi ha perso. La sfida ci rivela anche un altro aspetto: quello dell’“etica della convinzione” che Max Weber contrapponeva all’“etica della responsabilità”. Un’etica quindi mai disposta a scendere a mediazioni e compromessi pur di mantenere integri e inalterati i suoi principi (anche a fronte di risultati catastrofici).
La presenza di un conflitto, di una divergenza, è il primo requisito necessario per poter definire una situazione come negoziale: questo punto di partenza è sempre molto chiaro alle parti in gioco. La seconda condizione essenziale è il rapporto di interdipendenza: il legame tra le parti è tale per cui l’obiettivo di ognuna può essere raggiunto solo attraverso l’altra. Nessuna delle parti coinvolte nell’interazione dispone di tutto il potere, l’azione di ognuna delle parti in gioco influenza e dipende dall’azione dell’altra. Questa seconda condizione non è mai altrettanto chiara, e spesso causa di reticenze, resistenze e scarsa consapevolezza. Nella dimensione negoziale siamo dunque chiamati a dover “influenzare” e “dipendere” nello stesso momento. Diventare pienamente consapevoli di cosa significa agire all’interno del “vincolo d’interdipendenza” è l’elemento di maggiore complessità e difficoltà della dimensione negoziale. Per millenni gli esseri umani hanno risolto i loro confitti (e continuano a farlo) attraverso la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di sottomettersi (dipendere) solo se sconfitti. Per la nostra mente, quindi, è estremamente difficile fare coesistere queste due forme di relazione all’interno della medesima situazione: affermare/concedere; convincere/accettare; influenzare/dipendere.
La consapevolezza di questo limite della natura umana era ben chiara a un geniale pedagogista, Loris Malaguzzi, creatore a partire dagli anni 60 di un modello di scuole per l’infanzia divenute molto note anche all’estero sotto il nome di “Reggio Emilia Approach”. Per affrontare questa difficoltà aveva ideato un gioco molto efficace: stendeva sul pavimento un grande foglio che conteneva la sagoma di un animale e chiedeva ai bambini di ricalcare il bordo di quella sagoma con una matita colorata a loro disposizione. La matita di ognuno di loro era però legata alle matite di tutti gli altri mediante una fitta ragnatela di sottili cordicelle. Ogni singolo bambino si accorgeva a questo punto che, in alcune fasi poteva avanzare e in che altri momenti invece era necessario fermarsi per far procedere qualcun altro, fino a quando, diminuita la tensione della corda, poteva nuovamente spingere in avanti la propria matita. Non era necessaria dunque nessuna elaborazione cognitiva, i bambini sperimentavano direttamente sul loro corpo, fisicamente, questo strano ossimoro: per poter avanzare devi fermarti.
Ritornando al linguaggio della teoria dei giochi, sappiamo quindi che possiamo contrapporre al modello “io vinco tu perdi” (giochi a somma zero), la possibilità di far evolvere la relazione negoziale fino alla possibilità di poter “vincere insieme” (giochi a somma diversa da zero), ma lasciamo alle parole di Paul Watzlawick il compito di mostrarci questa semplice verità, così difficile da accettare:
“Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero? Che si può vincere insieme non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non esserne battuti? E che (cosa del tutto inconcepibile per lo scaltro giocatore a somma zero) si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, la vita?